Tra ’800 e ’900, in Brasile e in Argentina, gli italiani superarono per numero nativi e altri emigrati messi insieme. Fu allora che il pallone diventò il mezzo più sicuro per rientrare in patria

Il cinquantesimo oriundo della Nazionale, Mateo Retegui detto El Chapita, deve la maglia azzurra al nonno materno, Angelo Dimarco, partito da Canicattì dopo la Seconda guerra mondiale. Dimarco è uno dei 26 milioni di italiani che hanno lasciato la penisola per le Americhe dal 1860 al 1960, quando il boom industriale spostò l’emigrazione nel triangolo industriale.

Quando gli emigranti italiani arrivarono dall’altra parte dell’oceano costruirono le loro squadre: il Boca Juniors, fondato da quattro ragazzini xeneizes, la banda di Giovanni Juan Brichetto; il rivale storico, il River Plate, con un genovese primo presidente, un tesoriere sempre ligure e sei giocatori su undici della prima formazione nati sotto la Lanterna; il Club Mártires de Chicago de La Paternal, da cui prese le insegne l’Argentinos Juniors; il Porvenir, il Chacarita Juniors e l’Independiente o los Diablos Rojos de Avellaneda.

Ma pure il San Lorenzo de Almagro, la squadra amata da papa Francesco, nata dalla decisione di un prete salesiano, Lorenzo Massa, di ospitare le partite nel cortile del suo oratorio.

Destino identico in Brasile. Il Palmeiras fu fondato nel 1914 da immigrati italiani dopo la tournée del Torino e della Pro Vercelli. La dizione originale Palestra Italia (da cui il nome allo stadio) venne mutata con quella attuale il 13 settembre 1942, dopo l’entrata in guerra del Brasile contro le nazioni dell’Asse.

Una vicenda simile è quella del Cruzeiro, di Belo Horizonte, che fino al 1925 impedì la partecipazione alla squadra di atleti non italiani. E che dire del mitico Peñarol di Montevideo: il nome è la spagnolizzazione della città italiana di Pinerolo.

Italiani furono anche i fondatori di molte squadre cilene, come l’Audax Italiano, e peruviane, come il Club Atletico Torino di Talara, o come il Club Coronel Bolognesi.

Fin dai tempi in cui a Buenos Aires e a San Paolo gli italiani superavano per numero gli emigrati degli altri Paesi e i nativi messi insieme, il pallone è diventato il metodo più sicuro per fare ritorno in Europa.

Nella prima finale mondiale, quella del 1930, a Montevideo si fronteggiarono l’Uruguay di Mascheroni, Nasazzi, Scarone e l’Argentina di Botasso, Della Torre, Monti, Varallo e Stabile con sottofondo di bestemmie in dialetto ligure e napoletano. Molti di loro erano saliti sullo stesso piroscafo ed erano scesi a Montevideo o a Puerto Madero solo per fatal combinazione. Poi è stato un diluvio di «Angeli dalla faccia sporca» sino agli anni Sessanta, sino a Sivori, Angelillo e Maschio, allo sconosciuto Raul Conti del Bari, al dimenticato Luis Pentrelli dell’Udinese.

Dal 1980, assieme a Paulo Roberto Falcão e Daniel Bertoni, entrarono flotte di sconosciuti fantasisti carioca e scattanti gauchos con passaporto italiano per sfuggire ai regimi militari di Brasilia, Montevideo, Asunción e al dramma della dittatura argentina. Da allora è stato un diluvio di passaporti regolari e irregolari. Con la riapertura agli stranieri negli anni Ottanta sbarcarono bidoni come Luis Silvio Danuello, acquistato dalla Pistoiese, la meteora perugina Sergio Elio Ángel Fortunato oppure Victorino del Cagliari che, ancora oggi, si dubita sia stato davvero un giocatore di calcio. Ma molti di loro, come Maradona al Napoli o Javier Zanetti all’Inter o Mauro Germán Camoranesi, vincitore del titolo mondiale con l’Italia nel 2006, oppure Jorginho Frello, regista dell’Italia dell’Europeo 2020, hanno marchiato il calcio moderno.

Se il primo oriundo in azzurro fu in realtà uno svizzero (Ermanno Aebi, esordio nel 1920), seguito dall’italo-argentino Julio Libonatti, bomber torinista anni Venti-Trenta, la maggior parte proveniva da quella Europa rovesciata e depositata dall’altra parte dell’Atlantico, come diceva Jorge Luis Borges, dove il fantastico prende il posto della realtà.

Alcuni mediatori riuscirono persino a farsi fabbricare false copie della rivista argentina “El Gráfico” che esaltava calciatori mediocri. Qualche direttore sportivo ci cascò, come nel caso della Sampdoria che nell’estate del 1947 acquistò Oscar Lucas Garro, Francisco Culichio e Juan Carlos Bello: tre brocchi che collezionarono sette presenze tutti insieme. Andò peggio all’Inter del presidente Carlo Rinaldo Masseroni che nel 1946 importò dall’Uruguay i calciatori Elmo Bovio, Alberto Paolo Cerioni, Bibiano Zapirain, Luis Alberto Pedemonte e Tomaso Luis Volpi: diedero origine alla qualifica di «bidone» perché avevano la lentezza nel Dna. Esistevano perciò dei veri e propri «falchi» che si aggiravano negli stadi argentini, uruguayani, paraguayani e brasiliani alla ricerca di figli di discendenza italiana. Il Genoa arrivò a nominare presidente dal 1936 al 1941 un italo-argentino, Juan Claudio Culiolo.

Carlo Carcano, invece, forgiò la Juventus del quinquennio d’oro girando per Buenos Aires. Pescò Luisito Monti, l’eroe sconfitto al Mundial del ’30. Poi convinse Raimundo Bibiano Orsi, segnalatosi come miglior giocatore alle Olimpiadi di Amsterdam del ’28.

Ma il vero colpo di Carcano fu un altro. Nel nostro vocabolario è entrata la «Zona Cesarini» che deriva da un gol segnato all’ultimo istante dall’attaccante omonimo il 13 dicembre 1931, nella partita tra Italia e Ungheria. Renato Cesarini, nativo di Senigallia ed emigrato da bambino, è il rappresentante più prestigioso degli oriundi, che nel periodo fascista venivano indicati come rimpatriati e che adesso vengono definiti «nuovi italiani». Scoperto quasi per caso tra le riserve del Chacarita Juniors, Cesarini sbarcò a Genova nel ’29 sbandierando ai quattro venti l’attestato del regio stato italiano che lo richiamava al servizio militare. Considerò la Juventus la sua nuova famiglia. Ma per distruggerla il fascismo macchiò la carriera di Carcano, accusandolo di omosessualità e costringendolo alle dimissioni. Si aprì il ciclo del Bologna amato da Benito Mussolini con i suoi quattro scudetti. I bolognesi trovarono rinforzi nella colonia italiana d’Uruguay.

In quel periodo i «rimpatriati» forgiarono la nazionale italiana: con Monti, Cesarini e Orsi, che vinsero il Mondiale del 1934, esordirono il paraguaiano Attila Sallustro, il brasiliano Guarisi, gli italo-argentini Atilio Demaria, Enrique Guaita, Faccio e Mascheroni. Negli anni Cinquanta e Sessanta la pattuglia si rafforzò, fino ad Antonio Angelillo, Josè Altafini, Omar Sivori, Angelo Benedicto Sormani e Humberto Maschio.

Molti agenti ora sono alla ricerca di tracce di antenati italiani. Andò male a Jorge Messi, padre di Lionel, quando venne nelle Marche alla ricerca delle origini: si presentò all’anagrafe di Ancona invece che a quella di Recanati, da cui nel 1893 era partito suo nonno Angelo. E a nulla valsero i provini che la Pulce fece in Italia: senza documenti venne rifiutato.

Dopo il calcio di rigore più lungo al mondo, il calcio sudamericano sta vivendo la sua più lunga recessione. Il flusso non si è però esaurito, indirizzandosi verso sport minori.