Marc Bonnant è l’avvocato svizzero che ha difeso l’ex venerabile della P2. «Ufficialmente era uno degli uomini più ricercati della storia repubblicana, ma lui era in via Veneto, ossequiato da decine di persone. Ottenuta la libertà provvisoria era scortato dalla polizia»

Nella Svizzera che gli ha fatto da «scudo» restano custoditi alcuni dei segreti che Licio Gelli - il finanziatore della strage neofascista di Bologna, secondo i giudici della Corte d’Assise - ha portato con sé, quando è morto il 15 dicembre 2015, a 96 anni, nella sua residenza di Arezzo, Villa Wanda. L’Espresso ha incontrato a Ginevra Marc Bonnant, l’avvocato penalista svizzero che ha difeso l’ex venerabile della loggia massonica P2.

«Gelli si sentiva l’uomo più potente d’Italia e non aveva dubbi sul fatto che la P2 avesse un potere sulle istituzioni», dice Bonnant con un sorriso ironico, tra il fumo della sigaretta che lo avvolge nel suo elegante studio nel quartiere residenziale di Champel. Alle spalle un enorme dipinto ottocentesco e libri antichi aperti; fuori, il suono dell’acqua della fontana che scandisce i silenzi.

Bonnant ha messo le mani su alcune tra le pagine più buie della storia repubblicana. «Ho difeso e conosciuto molti italiani potenti, a volte decaduti», spiega. E fa i nomi del banchiere siciliano Michele Sindona, l’uomo di fiducia dello Ior (Istituto per le Opere di Religione), morto avvelenato nel 1986 nel carcere di Voghera, e di Florio Fiorini, ex direttore finanziario dell’Eni, arrestato a Ginevra nel 1992 e condannato a sei anni per bancarotta fraudolenta (crac Sasea). È entrato in contatto con Gelli tramite un collega, l’avvocato ginevrino Dominique Poncet: «“Ho l’uomo che comanda in Italia senza che questo si veda, vuoi difenderlo con me?”, mi da detto. Ho accettato. Gelli era in carcere, qui a Ginevra».

Il 13 settembre 1982 Licio Gelli viene arrestato dalla Polizia federale in una filiale della banca Ubs (Unione di Banche Svizzere) di Ginevra, dove aveva un conto di 120 milioni di dollari, ed è in possesso di documenti d’identità falsi. Solo due mesi prima, il Banco Ambrosiano era crollato e Roberto Calvi era stato trovato impiccato sotto il Ponte dei Frati neri a Londra. Il 17 marzo 1981, invece, i giudici Gherardo Colombo e Giuliano Turone, che indagavano sul crac Sindona, avevano scoperto gli elenchi degli iscritti alla P2, di cui Gelli era Gran Maestro. Tra i 962 nomi ci sono quelli dei banchieri Calvi e Sindona e di Silvio Berlusconi, all’epoca imprenditore. Due mesi dopo veniva emesso il primo mandato di cattura nei confronti di Gelli, già fuggitivo.

 

Quel 13 settembre l’ex venerabile viene portato in detenzione provvisoria nel carcere Champ-Dollon, alla periferia di Ginevra. Su di lui pende una richiesta di estradizione da parte dell’Italia: «I capi di accusa erano 46; se Gelli fosse stato estradato, senza che noi facessimo opposizione, avrebbe finito i suoi giorni in prigione», continua Bonnant. La richiesta di estradizione avrebbe dovuto essere esaminata il 19 agosto successivo dal Tribunale federale di Losanna, ma Gelli il 10 agosto evade: «Poncet credeva che fosse stato rapito e lo dichiarò alla stampa, dicendo che era scandaloso e che bisognava ritrovarlo. Ma io ero convinto che fosse fuggito. Infatti, era scappato corrompendo il guardiano Edouard Ceresa, che lo aveva messo nel cofano della sua automobile chiedendo ad altri guardiani, ignari, di aiutarlo a spingerla verso l’uscita perché in panne. Un elicottero lo attendeva poco lontano per portarlo, probabilmente, a Monaco; da lì è andato in Sud America. Poncet si è poi ritirato, sono rimasto solo. Qui è iniziata l’avventura».

 

Bonnant fa ricorso contro l’estradizione: «Vinco. Il Tribunale federale decide che Gelli poteva essere estradato e giudicato in Italia per soli quattro capi d’imputazione, prescritti o insignificanti. Uno scudo meraviglioso». Escluse tutte le accuse più gravi connesse alla P2, restano in piedi quelle per la «truffa Savoia Assicurazioni», la tentata calunnia nei confronti dei magistrati milanesi e il millantato credito. L’accusa più seria è la bancarotta fraudolenta del Banco Ambrosiano, per cui il 22 aprile 1998 Gelli sarà condannato a 12 anni. Pena che sconterà ai domiciliari. La Svizzera è la sua salvezza: «Doveva tornare, perché stare qui era la sua più grande protezione. Ma era in Sud America. Ed era molto complicato farlo venire a Ginevra, perché era sotto mandato di arresto».

 

In Italia Gelli è difeso dall’avvocato Maurizio Di Pietropaolo, morto nel 1991: «Gli dissi che dovevo parlare con il nostro assistito, mi rispose che non era un problema: “Vieni a Roma, c’è un aereo che ti porta da lui”. Quando arrivai a Roma, non c’era nessun aereo, ma un’automobile che mi condusse nel centro della città: in via Veneto. Lì il collega mi indicò dove andare, un bistrot a pochi passi. Appena entrai, vidi al primo tavolo Gelli: seduto da solo, né truccato né mascherato, aveva solo dei leggeri baffi. Le persone, passando, s’inchinavano e lo chiamavano sottovoce “commendatore”». L’avvocato è convinto che Gelli godesse di alte protezioni: «Da parte dei servizi segreti e di intelligence. Il nemico numero uno dell’Italia, l’uomo più ricercato era in via Veneto a bere tranquillamente...».

 

Bonnant si siede accanto a lui. «Gli dissi che doveva tornare in Svizzera. Gelli rise e mi rispose: “In Italia non corro nessun rischio. Come vedi, sono l’uomo più libero del mondo”. Ma dovevo capire come farlo rientrare in Svizzera aggirando le frontiere, avevo contro il Consiglio di Stato e il governo, il quale voleva che Gelli restasse dov’era. L’ho portato a Ginevra con l’automobile, ho preso strade in senso vietato, secondarie. Non so se ho commesso un reato, non credo».

 

La latitanza dura fino al 21 settembre 1987, quando Gelli si costituisce a Ginevra: «Era pieno di polizia, ma sono riuscito a portarlo davanti al giudice istruttore». Viene processato per la corruzione di Ceresa e per istigazione all’evasione. L’evasione in sé non è perseguita: «È stato condannato a una pena simbolica, per la legge svizzera l’aspirazione dell’uomo alla libertà è sempre innocente». L’agente di custodia Ceresa, condannato a 18 mesi con la condizionale per il suo ruolo nell’evasione, confessa di aver ricevuto da Gelli un primo dono di 20 mila franchi svizzeri, a cui ne sarebbero dovuti seguire altri due milioni.

 

L’ex venerabile viene estradato in Italia il 17 febbraio 1988. Due mesi dopo, ottiene la libertà provvisoria per motivi di salute. «L’uomo che avrebbe dovuto passare il resto della sua vita in carcere, arriva in Italia e ottiene una sospensione della pena. Eravamo molto felici», commenta Bonnant. Che ricorda un aneddoto: «Poco tempo dopo, decisi di trascorrere una settimana di vacanza in Italia, a Porto Ercole; telefonai a uno degli hotel più rinomati per prenotare, mi venne detto che non c’era posto per i tre mesi a venire, allora ho chiamato Gelli. “Tu sei l’uomo più potente d’Italia, puoi far cadere governi e designare il presidente del Consiglio dei ministri, giusto?”, gli dissi. “Sì”, rispose. “Puoi trovarmi allora una stanza a Porto Ercole?”. Due minuti dopo mi richiamarono dall’hotel definendomi “commendatore” e dicendo che una suite era stata riservata per me da Gelli». Il quale va poi a trovare Bonnant a Porto Ercole: «Arrivò su un’automobile con la sirena, preceduta da quattro motociclisti. Gelli, l’uomo più ricercato, si muoveva scortato dalla polizia italiana per fare visita, forte del suo potere, a un amico. È emblematico».

 

Bonnant ha conosciuto «molto bene» Gelli e il suo ambiente: «Mi aveva messo in contatto con alcuni suoi amici, come Bettino Craxi. Quando questi era in Tunisia, avevo dato dei consigli al suo avvocato sulla domanda di estradizione da parte dell’Italia. E con Sindona, con monsignor Paul Marcinkus (il presidente dello Ior coinvolto nel crac del Banco Ambrosiano, ndr), con Calvi. Ma non ricordo altri dettagli». Dice, inoltre, di non sapere nulla né del conto svizzero di Gelli – sul quale, secondo la Corte di Bologna, sono transitati i soldi serviti a finanziare la strage alla stazione del 2 agosto 1980 – né su nomi e scenari di quell’attentato, per cui Gelli è stato condannato per depistaggio. «Non era un intellettuale; la sua intelligenza è quella che i greci chiamavano metis, ossia arguzia. E lui era davvero molto arguto. E anche un millantatore».