La premier vorrebbe costruire la destra conservatrice ma non riesce ad accettare la vicenda da cui proviene. Che è anche quella di Gianfranco Fini. Uno dei suoi padri. Col quale si scontra da quando ha fondato Fratelli d’Italia. L’ultima volta tramite Lucia Annunziata

La sorpresa potrebbe sempre arrivare in corner, con una Giorgia Meloni che si presenta, per dire, a Sant’Anna di Stazzema. Di certo, a un passo dal 25 aprile, e appena superato il gong dei sei mesi di governo, si può dire che sulla questione dell’antifascismo Giorgia Meloni e la sua destra di Fratelli d’Italia sembra un aeroplanino senz’ali, incapace di staccare l’ombra da terra. Siamo ormai all’impensabile: la Lega, con Luca Zaia prima e con Lorenzo Fontana poi, si è infilata nel vuoto lasciato dai Fratelli d’Italia e, consapevole come spiega Renato Mannheimer che si tratta di «un valore per due italiani su tre», fa professione di antifascismo come nemmeno ai tempi di Umberto Bossi.

Non così la dirigenza di Fratelli d’Italia. Eppure per Meloni sarebbe un banco di prova cruciale: e non per una questione di esami del sangue, di provenienza. La questione è altra: misurare la premier, più che la capa di un partito, la sua capacità di interpretare il ruolo che ricopre, che va oltre il ruolo ricoperto fino al 25 settembre. La sua capacità di essere destra istituzionale, di diventare una Angela Merkel in versione conservatrice, più che una Marine Le Pen che si sia trovata a vincere le elezioni.

Sorprendente è che, proprio adesso che governa, la premier che vorrebbe costruire una nuova destra conservatrice venga risospinta indietro come un elastico dalla sua propria «ritrosia» - così l’ha definita Gianfranco Fini - nei meandri della destra della rivendicazione, che si sente figlia di un dio minore e che si rifugia a Praga da Jan Palach come Ignazio La Russa, perché - alla faccia del sovranismo e dell’italianità - non sa trovare alcuna memoria da celebrare sull’intero suolo patrio che le corrisponda un minimo. Non riesce, al dunque, a inforcare la via principale. Quella che fu per intenderci di Silvio Berlusconi a Onna, e che nel 2009 lo rese, per qualche giorno, un pericolosissimo competitor nella leadership dei popolari moderati. E non ci riesce per una questione che ha del paradossale: fare i conti con la sua, di storia.

La prova sovrana, dopo il simpatico esondare per ogni dove di Ignazio La Russa, con la sua storia parallela di orchestrali altoatesini e di costituzioni non fondate sull’antifascismo e sulla resistenza, la troviamo nell’ennesimo scontro con Gianfranco Fini.

Uno scontro non voluto da nessuna delle due parti e anzi, negato dall’una (Fini) ed evitato dall’altra (Meloni). Eppure fatalmente destinato a ripetersi, almeno fin tanto che non sarà risolto.

Ospite di Lucia Annunziata Fini dice che Meloni dovrebbe «cogliere l’occasione per dire senza ambiguità e senza reticenze che la destra italiana i conti con il fascismo li ha fatti fino in fondo, quando è nata An, che condannò il fascismo», perché «nelle tesi di Fiuggi era scritto testualmente che la Resistenza aveva contribuito a ripristinare quei valori di libertà, democrazia e giustizia sociale che il fascismo aveva conculcato». E, nel sottolineare che «pacificare non vuol dire parificare», ricorda quanto disse Vittorio Foa al senatore missino Giorgio Pisanò: «I morti vanno onorati tutti ma i vivi erano diversi. Se aveste vinto voi noi eravamo ancora in prigione, ma abbiamo vinto noi e lei è senatore».

Apriti cielo. Il fondatore di Alleanza nazionale non vorrebbe veramente polemizzare con Meloni, non l’ha mai fatto finora e anzi in ogni occasione ha offerto legittimazione alla leader di Fratelli d’Italia, tanto da far pensare a molti che si stesse giocando un rientro in partita per le elezioni Europee. Fini vuole più che altro esortarla verso la direzione che ritiene giusta: tante volte ripete infatti che la premier non solo è d’accordo ma addirittura «è convinta» di ciò che lui sta spiegando. E allora perché lei non dice niente?

Domanda destinata a restare senza risposta. Meloni infatti resta zitta, continuando la singolare gimcana dell’intera settimana precedente: silente di fronte alle parole di Francesco Lollobrigida sulla sostituzione etnica, era intervenuta contro la vignetta del Fatto su Arianna Meloni: domenica, mentre andava in onda mezz’ora in più, aveva postato sui social una foto con la sorella a testimoniare la vicinanza «sempre e per sempre». Su quanto va dicendo Fini, invece, silenzio.

L’intero vertice di Fdi per la verità tace. Solo dopo tre ore, articolato da personaggi decisamente di secondo piano, parte l’attacco alla giornalista conduttrice di “Mezz’ora in più”, accusata di faziosità per aver accostato quanto non fatto sull’antifascismo a quanto fatto sulla gestione di migranti, in ultimo col decreto Cutro. Insomma se la prendono con lei, di tutta evidenza, perché non possono prendersela con lui.

Una stilla di veleno però salta fuori. Un articolo di Repubblica, firmato da Emanuele Lauria, riporta infatti tra virgolette un commento del ministro Lollobrigida, a chiarimento di quanto si pensi dalle parti della premier: «Fini viene spesso strumentalizzato dalla sinistra. Spero sia in buona fede», «l’unica certezza è che Giorgia Meloni è riuscita in quello che lui non è stato in grado di realizzare. Sarebbe ingeneroso non ricordare che all’epoca fu importante il suo ruolo, ma le tante cose buone non corrispondono ad altre meno nobili che vanificarono molti risultati ottenuti. Ognuno ha la sua storia e ognuno dovrebbe sapere quale è il suo tempo». Parole a dir poco liquidatorie.

Una storia, quindi, dentro la quale nessuno riesce a fare un passo avanti. Anche l’occasione di andare oltre appoggiandosi sul percorso finiano cade ancora una volta nel vuoto e nelle recriminazioni velate.

Gianfranco Fini, il segretario che ha messo le basi perché la destra potesse muoversi libera dell’ombra del suo passato così ingombrante, continua a rappresentare una specie di male assoluto proprio per Giorgia Meloni, che pure tanto fu ed è stata apprezzata dal suo ex capo. Lui rappresenta qualcosa che on si può assolutamente riconoscere come un pezzo della propria storia, pena una specie di morte politica, la fine di tutto.

Torna in mente, e continua a spiegare tutto, l’epico scontro che i due ebbero in occasione del congresso fondativo di Fratelli d’Italia, nel 2014, a Fiuggi, quando Fini invitò i Fratelli d’Italia a «smetterla di scimmiottare la storia» e li paragonò a «bambini cresciuti, e viziati, che vogliono imitare i fratelli maggiori senza capire che le condizioni in cui si trovano sono completamente diverse». Torna alla memoria la risposta che gli diede in quell’occasione Meloni: «Non accetto l’accusa di essere dei bambini viziati. Noi non siamo bambini viziati. Siamo uomini e donne che sono dovuti crescere troppo in fretta e cavarsela da soli, come sempre accade a quei ragazzi che vengono abbandonati dal loro padre, che a un certo punto scappa di casa e se ne va in giro per il mondo a sperperare un patrimonio. Questo noi siamo».

Il padre era Fini, qui descritto con un percorso simile a quello che ebbe davvero il padre di Giorgia Meloni, come lei ha poi raccontato. Sono passati quasi dieci anni da quello scontro, eppure la capacità di fare i conti con la propria storia, col proprio passato, sembra rimasta cristallizzata in una teca.