Diversificare le fonti di energia è una necessità non più rinviabile. Ma è necessario un salto di qualità per rendere più snelli i procedimenti di autorizzazione dei nuovi impianti

I fattori essenziali per consentire al Paese di raggiungere prima possibile gli obiettivi di transizione energetica sono essenzialmente tre. Un forte impegno politico, la piena consapevolezza della complessità della sfida, un pensiero lungo che sappia cogliere l’importanza di scegliere fra la logica del risparmio imprudentemente timoroso e quella dell’investimento prudentemente coraggioso.

 

L’accelerazione dolorosamente impressa dal conflitto in Ucraina, con la conseguente impennata del costo dell’energia, ha dato la spinta decisiva per la prima condizione. A livello nazionale, l’esistenza di un forte commitment politico è un’evidenza. Che unisce, o se si preferisce divide poco, maggioranza e opposizione.

 

Riguardo alla piena consapevolezza della complessità della sfida, è da registrare, in positivo, che, se è sempre più chiaro il potenziale di capacità produttiva energetica del Paese, è venuto nel contempo emergendo il dato relativo alla necessità di un diverso modo di procurarsi l’approvvigionamento. Non solo per ragioni geopolitiche (che suggeriscono di accrescere il grado di autosufficienza), ma anche perché l’assetto tradizionale, basato sui combustibili fossili, incide con forza su altri equilibri, non meno importanti. Basti pensare al rapporto fra riduzione dei ghiacciai e crisi idrica.

 

Da un lato, temperature elevate e scarse precipitazioni nevose hanno fatto del 2022 l’anno nero dei ghiacciai (il 2023 non promette di andare meglio: meno 45% di neve sulle Alpi rispetto al 2022), all’interno di una tendenza già negativa in cui, per fare un unico esempio, il Monte Bianco, nei soli ultimi 14 anni, ha perso circa 100 milioni di metri cubi di massa. Dall’altro lato, i cinque laghi prealpini italiani sono per tre quarti vuoti (potrebbero contenere 1,3 miliardi di metri cubi di acqua ma in concreto, a inizio 2023, ne contengono solo circa 350 milioni, 200 milioni in meno rispetto al 2022). Gli effetti? Solo per l’agricoltura, i danni provocati dalla siccità e dal maltempo hanno superato, nel 2022, i 6 miliardi di euro, mettendo in crisi intere filiere (per il 2023, si temono crolli produttivi del 10% per gli ortaggi e sino al 30% per colture come mais e riso).

 

Siamo invece ancora un po’ indietro, va detto, nello sviluppo di un pensiero lungo che sappia scegliere fra la logica del risparmio imprudentemente timoroso e quella dell’investimento prudentemente coraggioso. La transizione energetica italiana in corso è, essenzialmente, passaggio da un sistema impiantistico nazionale di produzione di dimensione medio-piccola a uno di taglia grande. Quando la transizione sarà compiuta, il sistema resterà, stabilmente, grande. “Grande”, per conseguenza, deve diventare l’unità di misura di ogni cosa. Non solo dello sforzo richiesto al sistema produttivo, impegnando forti capacità progettuali e imponenti masse finanziarie (anche con articolate architetture), ma anche di quello cui è chiamato l’apparato pubblico, tanto a livello centrale quanto a livello territoriale.

 

È tempo, oggi, di dare al Paese la dimensione impiantistica che serve per accrescere l’autosufficienza (seppure nel quadro di un mix di fonti energetiche da dosare differentemente fra loro). Domani, sarà necessario ammodernare in modo costante l’accresciuta capacità impiantistica. Tutto questo, dal lato dell’apparato pubblico, richiede però cambiamenti importanti sul piano dei processi autorizzativi.

 

Lungo tre assi di fondo: rinnovata “modellizzazione” dell’azione amministrativa; definizione di un assetto organizzativo adeguato al definitivo salto di taglia dimensionale del sistema impiantistico nazionale, e, infine, ampio ricorso a tecnologie evolute. In concreto, esemplificando, occorre intanto accorciare la distanza fra la Valutazione di Impatto Ambientale (Via) intermedia e l’autorizzazione finale (anche facendo “pesare” di più la Via) e iniziare a porsi il problema del revamping e del repowering di impianti già esistenti, molti dei quali con ormai 20 anni di onorato servizio, che non possono essere trattati come se fossero impianti da costruire ex novo; è poi necessario mettersi definitivamente alle spalle l’idea — ispirata a un malinteso senso del risparmio, per certi versi ancestralmente timoroso — che a fronte di un sistema impiantistico che sta diventando e rimarrà “grande” l’apparato pubblico deputato al permitting possa farvi fronte restando “piccolo”, centellinando con riluttanza risorse umane e mezzi (anche perché, va aggiunto, i relativi costi sono sopportati dalle imprese, attraverso le tariffe versate all’avvio dei singoli iter autorizzativi); infine, impiegando più tecnologia di livello elevato, sia per avere una conoscenza maggiormente approfondita dei territori interessati (evitando o riducendo le possibili interferenze con e fra gli impianti) che per accrescere, adeguandola, la capacità di risposta degli uffici pubblici.

 

I margini di crescita ci sono. Dal punto di vista della Via (che come detto non esaurisce l’iter autorizzativo, ma ne rappresenta buona parte), nel 2022 è stato dato via libera a impianti capaci di produrre energia per 7,5 Gw. Nel 2023, da soli 10 impianti di eolico off shore (senza cioè considerare le centinaia di altri dossier pienamente in corso di trattazione), potrebbero - in caso di valutazione positiva - arrivare altri 9 Gw circa. Senza esagerare si può dire che, nell’arco dell’intero 2023, la soglia di circa 20 Gw di pareri di Via favorevoli è possibile.

 

Occorre — adesso, qui — lavorare sul pensiero lungo, affinché si sviluppi e si consolidi. Perché non è più tempo di tentare, è, piuttosto, tempo di riuscire.