Sono quasi ottomila in tutto e, nonostante tante siano scatole vuote o abbiano più amministratori che impiegati, la politica non fa nulla per ridurle

Una monocamera con 18 decreti e 9 fiducie
La Camera istruisce, il Senato ratifica. O viceversa. Così, da quattro mesi, il votificio parlamentare. È successo con la legge di bilancio e da allora in poi 4 volte con i decreti esaminati e modificati solo da Montecitorio e 6 volte con i provvedimenti vagliati e integrati solo a palazzo Madama. L’altro ramo del Parlamento firma la fotocopia. L’ultima con il famigerato Milleproroghe che portava in grembo il colpo di mano sui balneari bacchettato da Mattarella. Il “decreto discarica”, contiene tutto e il contrario di tutto, è l’esempio più fragoroso delle forzature lasciate tali e quali dalla camera che approva per ultima. Da fine ottobre a febbraio, il governo Meloni ha varato ben 18 decreti (più di quattro al mese) e chiesto ben 9 fiducie (7 alla camera e 2 al Senato): al ritmo di una ogni due settimane. Meloni l’ha riconosciuto e il Quirinale gliene ha dato atto. Ma ancora nulla è cambiato: delle 13 leggi approvate, 11 sono decreti convertiti, più la legge di bilancio e quella istitutiva della commissione sul femminicidio. Il caso balneari è la madre degli obbrobri: come si ripara alla micidiale proroga delle concessioni fino al 2025 che ci costerebbe la stangata Ue? Semplice: con un altro decreto.

Che sia stato “profetico” il presidente del Senato, La Russa, a dire che visto il monocameralismo nei fatti, tanto varrebbe cambiare la Costituzione?

 

Lo scandalo delle partecipate senza dipendenti
In tempi di nomine delle società pubbliche tutti gli occhi sono puntati alla punta dell’iceberg. Ma sott’acqua si consuma un maxi-spreco. Nel rapporto sulle partecipate del Servizio per il controllo parlamentare della Camera (che riprende un dossier del Mef) si scopre che la galassia è composta da 7.969 società di cui 5.622 attive, con esercito di 908.511 addetti. La proprietà può essere in parte o del tutto pubblica (Mef ed enti locali). È una giungla in cui ben 886 società su 3.240 sono scatole vuote: non hanno dipendenti (559) o il loro numero è inferiore a quello degli amministratori (327). L’invito perentorio ad accorpare, far dimagrire o vendere le zavorre, contenuto da un Testo Unico del 2016, resta in buona parte lettera morta. Su un totale di 32.427 partecipazioni in mano a enti pubblici, quelle che non superano il test sono più del 56%. Di più: quasi la metà delle amministrazioni ha declinato l’invito a uscire o a chiudere bottega. Quanto alla vendita di quote, è avvenuto solo nel 18% dei casi per 3.117 partecipazioni cedibili. Lo scandalo arriva scoprendo che 287 partecipate su 3.240 (l’8,86%) sono in rosso, eppure nel 58,8% dei casi al richiamo è seguita solo un’alzata di spalle.

 

Il salario minimo del portaborse: 1.100 euro
È il collaboratore più stretto del parlamentare ma può essere sottopagato. La retromarcia sugli assistenti dei deputati, con deroga al Jobs Act, è unanime tra maggioranza e opposizione. Le regole introdotte a ottobre da Montecitorio prevedevano che al collaboratore potesse andare l’intera somma assegnata all’onorevole per l’esercizio del mandato (3.690 euro) oppure 2.670 euro per il part time al 75% nonché 1.845 per il mezzo servizio. Un recente accordo trasversale ha ribassato gli scaglioni: 1.600, 1.330 e 1100 euro. Resta la discrezionalità del deputato e la possibilità dei portaborse di cumulare più contratti con più eletti. E la qualità?