Il regista francese racconta storie di cronaca nera col tono leggero della commedia. E sulla possibilità di fare serie tv: «Me l’hanno proposto ma per me due ore sono il formato ideale per raccontare una storia»

Visto dall’Italia François Ozon fa quasi paura. Non ha mai vinto Cannes, non ha mai vinto Venezia e nemmeno un César, anche se è stato candidato infinite volte. Però dal 1998 ha girato 23 film molto personali, spesso di grande successo, più una ventina di corti. E soprattutto ha alternato e a volte mescolato gli stili e i generi più diversi, da “Sotto la sabbia” a “Otto donne e un mistero”, da “Frantz” a “È andato tutto bene” passando per “Grazie a Dio”, Orso d’argento a Berlino. Fino a tornare con “Mon crime - La colpevole sono io” (in sala dal 25 aprile) a una delle sue specialità. Riscrivere il passato per illuminare il presente. Conciliando la spietatezza del tema con la leggerezza del tono.

 

«Sono partito da una pièce di Georges Berr e Louis Verneuil già adattata a Hollywood nel 1937 in una commedia svitata, “La moglie bugiarda”, con Carole Lombard, Fred McMurray e John Barrymore», dice il regista francese, classe 1967, una lontana carriera da fotomodello interrotta per dedicarsi al cinema. «Mi piaceva l’idea di una donna che si accusa di un crimine mai commesso, per poi ottenere gloria e successo grazie all’ottusità e alla corruzione del sistema giudiziario».

[[ge:rep-locali:espresso:394113490]]

A confessare di aver ucciso il produttore che voleva violentarla è una giovane attrice spiantata (l’emergente Nadia Tereskiewicz) che divide una mansarda sotto i tetti della Parigi anni ’30 con una coetanea avvocata (Rebecca Marder). In realtà nessuno sa chi abbia fatto fuori il produttore, ma la sua morte fa comodo a molti. Così, malgrado le manovre isteriche di un giudice ridicolo (Fabrice Luchini), il processo-spettacolo fa dell’attricetta una star. Fino a quando una verità inattesa non riapre i giochi.

 

«Naturalmente ho riscritto in buona parte il testo originale», racconta Ozon: «mantenendo il ritmo frenetico della “screwball comedy”. All’epoca in Francia gli scandali nel mondo degli affari e nella polizia erano frequentissimi. Quello era il quadro. Oggi si pensa piuttosto al MeToo, all’uguaglianza tra i sessi». Sullo sfondo di “Mon crime” passano anche protagoniste della cronaca nera come le sorelle Papin, che ispirarono “Les bonnes” di Jean Genet, o la parricida Violette Nozière, soggetto nel 1978 del film omonimo di Claude Chabrol con Isabelle Huppert. Che appare anche nel film di Ozon, rubando la scena a tutti, nei panni di un’ex-diva del muto assai sopra le righe. «Ho inserito questi riferimenti perché mi sono reso conto che quei delitti riletti oggi cambiano segno. Allora queste donne erano mostri, oggi diventano vittime», spiega il regista. «Vista con i nostri occhi quella di Violette Nozière, stuprata ripetutamente dal padre, è la storia di un incesto. Il nostro sguardo è mutato. La stessa Huppert, quando le ho detto ma lo sai che il padre la violentava, ha sgranato gli occhi: me n’ero dimenticata... Perfino negli anni ’70 di questo aspetto ancora non si parlava!».

[[ge:rep-locali:espresso:394113491]]

Anche nel cinema oggi tutto è diverso. Un autore come Ozon, che ha spesso spinto molto in là il confine del visibile in fatto di sesso, basti pensare all’incipit ginecologico di “Doppio amore”, come ha visto cambiare non solo i film ma il lavoro sul set? «Credo che a lungo il regista sia stato visto come il padrone assoluto. Dal regista si accettava tutto perché era per definizione geniale. Un atteggiamento di cui molti hanno approfittato per diventare dei mostri, ma tirannia e abuso di potere non sono un obbligo. Si possono instaurare rapporti di fiducia e di piacere. È chiaro che il potere resta a me, ma cerco l’armonia. Oggi ad esempio non si potrebbe più lavorare come Maurice Pialat, grande cineasta ma molto violento con attori e tecnici. O come Hitchcock, che molestava Tippi Hedren sul set de “Gli uccelli”. Il paradosso è che con questo sistema si possono creare grandi film, ma un genio dev’essere un mostro per fare capolavori? Non credo».

 

Ci sono casi controversi, in Francia ad esempio si è discusso molto di “Ultimo tango a Parigi”... «Ah certo, molte femministe non vogliono più vederlo. Io penso che Brando e Bertolucci siano stati sessisti, non erano obbligati a manipolare Maria Schneider, potevano parlarle, spiegarsi. Gli attori sono intelligenti, questa ossessione di voler sorprendere, rubare qualcosa, non è necessaria, si può lavorare senza manipolare. Anche la scena d’apertura di “Doppio amore” non l’ho certo estorta, ne ho parlato all’attrice, il cinema è uno scambio costante, tanto vale che sia alla pari». E nessuno ha mai detto no? «Certo, se qualcuno legge la sceneggiatura e dice questa scena non la faccio va benissimo, vuol dire che non lavoreremo insieme. Gli attori hanno sempre ragione. Se dicono no, inutile insistere. I problemi si affrontano prima, non sul set».

 

A proposito di registi onnipotenti, l’avvento delle serie tv oggi sembra consegnare lo scettro a sceneggiatori e showrunner. «Forse negli Usa, ma in Francia vige ancora la politique des auteurs, grazie alla Nouvelle vague il regista impone il suo punto di vista e detiene il “final cut”. Forse cambierà, oggi i giovani vanno meno al cinema, ma per ora siamo un po’ come Asterix e Obelix, resistiamo!». Niente serie dunque per Ozon? «Me l’hanno proposto ma per me due ore sono il formato ideale per raccontare una storia. Finché ho la libertà e la fortuna di fare film per le sale lo farò». E se le dessero carta bianca? «Al limite mi interesserebbe fare come Fassbinder con “Berlin Alexanderplatz”, un grande romanzo diviso in 15 ore e mezza. Un giorno, chissà».

 

Per ora Ozon ha rifatto un classico di Fassbinder cambiando sesso alla protagonista, non più donna ma uomo. Titolo: “Peter von Kant”. In Italia a metà maggio, dopo “Mon crime”... Capito perché fa un po’ paura?