La Svb era il punto di riferimento delle start up tecnologiche. Sotto choc per il fallimento, gli imprenditori sono in attesa di capire chi potrà essere il prossimo finanziatore dell’innovazione

Il messaggio scorre sullo schermo del cellulare. Cassie legge, ma non capisce. Le hanno inviato un articolo, dice che la banca a cui ha affidato i fondi della sua compagnia sta fallendo. «Ho subito tentato di accedere al mio account, di trasferire i soldi su altri conti, ma era tutto bloccato», racconta mentre ripercorre con noi le ore in cui ha temuto di perdere tutto. Cassie Choi è la co-fondatrice di Pair Team, piattaforma nata nel 2019 a San Francisco per supportare i fornitori di servizi sanitari locali. Una delle centinaia di startup che venerdì 10 marzo hanno assistito incredule allo sbriciolamento della Silicon Valley Bank di Santa Clara. A due settimane dal tornado, Choi fatica a riprendersi dallo choc, nonostante sia rientrata in possesso del suo denaro, grazie all’intervento del governo. «La Svb è stata un pilastro, è nel dna della Silicon Valley. Qualcuno suggerisce che noi aziende dovremmo tentare di salvarla».

 

Per gli innovatori della West Coast è tempo di rimboccarsi le maniche. Si cercano strade nuove, altri istituti bancari che possano tenere il passo con il mondo tech. Ma sarà impresa assai complessa. «La Svb concedeva prestiti, carte di credito e servizi che non avremmo mai ottenuto altrove, perché il nostro profilo di rischio è altissimo», ci spiega Stefan Kalb, ceo di Shelf Engine, ideata a Seattle per ridurre lo spreco di cibo nei supermercati grazie all’intelligenza artificiale. «La Svb era appositamente costruita e orchestrata per noi». Un meccanismo che aveva ridotto all’osso la burocrazia, senza pretendere garanzie che una startup per definizione non può dare. Sull’impatto di questa “amputazione” ci sono pochi dubbi. Ma gli effetti, assicura Mark Zandi, capo economista di Moody’s Analytics, non saranno a lungo termine. «Altre istituzioni finanziarie si faranno carico del vuoto e capiranno come fornire credito a queste imprese». Ci vorrà del tempo. «Forse un anno o due, ma saranno in grado di ottenere i finanziamenti di cui hanno bisogno». Negli ultimi quarant’anni, tutto il necessario era elargito prodigamente dalla Svb, a cui le giovani compagnie affidavano il denaro che arrivava dagli investitori di venture capital. La longa manus raggiungeva anche l’indotto, dallo svago alle conferenze di settore, fino alle vigne di Napa e Sonoma.

 

Prodigiosi gli ultimi quattro anni, con depositi che avevano toccato i 220 miliardi di dollari. Crescita esponenziale avvenuta sottovalutando l’esposizione al rischio. Anche per via dell’allentamento delle regole prudenziali per gli istituti medio-piccoli voluto da Trump. Le nuvole iniziano ad addensarsi all’inizio di marzo, ma il disastro covava da tempo in una stagione difficile nell’ecosistema dell’industria tech. Se la pandemia aveva fatto lievitare all’inverosimile i profitti, con il ritorno alla normalità la crescita è rallentata. Assestamento, non crisi. Ma le aziende stringono la cinghia. Oltre centomila i lavoratori mandati a casa dall’inizio dell’anno, inclusi i diecimila di Meta; nel 2022 a saltare erano stati almeno 160mila posti. Anche alla Svb i depositi si riducono e i prelievi aumentano. Occorre liquidità. In aggiunta la banca ha investito in attività a lunga scadenza - come i titoli governativi - cadute a picco a causa dei rialzi dei tassi d’interesse della Fed degli ultimi mesi. L’8 marzo i dirigenti comunicano il tentativo di raccogliere un capitale di 2,25 miliardi per tamponare una perdita di 1,8 miliardi nella vendita di obbligazioni. Gli investitori cedono al panico e lo diffondono, i clienti assalgono gli sportelli. La crisi di liquidità è irreversibile, la Svb commissariata.

 

Tra gli imprenditori c’è chi solleva critiche soprattutto agli investitori che spesso spingevano le aziende verso la Silicon Valley Bank. «Concedeva generosi prestiti alle startup, certo. Ma questo gioco beneficiava anche i venture capitalist che ad esempio potevano comprare l’ennesima casa a tassi scontati», sbotta Alex Meshkin, ceo di Flow Health, rete di laboratori diagnostici. Pur non avendo conti alla Svb, utilizzava Rippling, un software di gestione delle buste paga ad essa collegato. Come tutti, anche lo stipendio dei suoi mille dipendenti è arrivato in ritardo. Prima del crack, ragiona, nella Silicon Valley la convinzione era quella di essere al di sopra di tutto. «Li avete visti, poi, implorare sui social? Si sono trovati davanti un evento che avrebbe potuto spazzare via il loro patrimonio. Un loro errore, non una responsabilità dell’americano medio o di un businessman che magari affronta situazioni simili ma non ottiene alcun aiuto». Il riferimento è alla fulminea discesa in campo del governo. All’indomani del fallimento, infatti, Tesoro, Federal Deposit Insurance Corporation e Fed hanno garantito a tutti i propri soldi, anche a chi superava la soglia dei 250mila dollari assicurati per legge. A chi lo critica per aver salvato l’élite dell’innovazione, Joe Biden ribadisce che non ci saranno costi per i contribuenti visto che verranno impiegate le quote pagate dalle banche al Deposit Insurance Fund. Il messaggio della Casa Bianca è chiaro: non è un salvataggio come quello del 2008, il cui peso cadde sulle spalle di milioni di americani. Mentre a Washington destra e sinistra si rimpallano recriminazioni, negli hub della West Coast si ricuciono reti, si ricostruisce la fiducia. Si reinventa un futuro senza Svb. «C’è già chi è pronto a conquistare il mercato, come la banca-startup Mercury», prevede Stefan Kalb. «Siamo di nuovo in sella. Continuiamo a crescere e molto velocemente». Nonostante tutto, il leitmotiv non è cambiato. «Da dove può venire l’innovazione se non da un luogo in cui la posta in gioco è alta, il rischio è elevato e si investe nella scoperta?».