Il successo, il cinema italiano all’estero, il ruolo dell’attore. Dialogo a tutto campo con l’artista che torna in sala con un nuovo film, in cui interpreta un poliziotto nella sua ultima notte di lavoro

Cinquemila euro per un passaggio in macchina: è la proposta irresistibile che fanno a Franco Amore, assistente capo della polizia per 35 anni, in procinto di andare in pensione. È il nuovo personaggio che interpreta Pierfrancesco Favino nel thriller “L’ultima notte di Amore”, in anteprima al 73mo Festival internazionale del Cinema di Berlino e appena arrivato al cinema. Lavoratore instancabile e poliziotto integerrimo che non ha mai sparato a nessuno, deve decidere se lasciarsi tentare dalla malavita cinese a Milano. Perché basta una serata sbagliata a mettere in discussione una vita intera.

 

Il film è tutto giocato sul crinale tra legalità e illegalità, su un raggio di luce che può illuminare come bruciare una carriera. Come si è avvicinato al tema?
«A ognuno di noi piace pensarsi onesto, ci raccontiamo come persone che seguono le regole, oppure diciamo quanto siamo fighi se non le seguiamo. Franco è di quelli che fa della sua onestà un vessillo ed è interessante quanto sia labile nella nostra cultura il confine fra essere una persona onesta e essere considerato un fesso. Franco viene trattato da fesso da tanti, prova frustrazione per questo, però poi viene messo in una situazione che può cambiare le cose. Uno come lui, che segue le regole, dovrebbe essere la normalità. Ma noi italiani abbiamo la mentalità del farci togliere la multa dall’amico vigile, il film parla anche di ciò».

 

E di cosa significhi avere ricchezza e successo in una società sempre più cinica.
«Oggi accendi il cellulare e vedi che stanno tutti benissimo, sono in forma smagliante, hanno successo. Anche quando è evidentemente un insuccesso, te lo fanno passare come successo. Questo percepire che c’è sempre qualcosa di meglio di te ti schiaccia e ti mette in un angolo. Specie se sei uno come Franco, senza uno scatto di carriera in 35 anni, impossibilitato a fare un doppio lavoro. Ci sono tante persone che faticano ad arrivare a fine mese e sono subissate dal paragone di ciò che dovrebbero essere».

 

Com’è stato rivestire la divisa dopo “Acab”?
«È sempre interessante scoprire la vita di queste persone, da dove vengono, perché hanno fatto questa scelta. Ma si tratta di corpi d’appartenenza diversi, la celere non è la mobile e anche i personaggi sono diversi. Resta uno dei mestieri peggio pagati che esistano, soprattutto rispetto a quello che viene loro chiesto. Le loro condizioni andrebbero migliorate».

 

Per interpretare una persona che fatica ad arrivare a fine mese, a cosa si rifà?
«Io ho campato con poco per molto tempo. Ho fatto mille mestieri per pagarmi l’affitto, e non parliamo di un’era fa. Faccio questo mestiere dal 1992, fino al 2015 non sono stato pagato grandi cifre. Conosco il valore del denaro, sono uno che va a fare la spesa, alla posta, porta le figlie a scuola. Non disperdo il denaro, non ho bisogno della villa, del cuoco, del lusso sfrenato, non mi realizzo in quella dimensione. Detto questo, alla base del mio mestiere ci sono comprensione ed empatia indispensabili per abbracciare le potenzialità di chi interpreto. Senza giudizi e con tutta l’apertura mentale che posso. Se domani voglio interpretare un elefante e credere di essere un elefante lo divento: mostrare al pubblico ciò che non riesce a vedere, e a volte immaginare, è la funzione di un attore».

 

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È uno dei pochi attori in grado di prendersi molto in giro, penso all’episodio su Che Guevara nella serie Sky “Chiami il mio agente – Italia”: quanto si è divertito?
«Tantissimo, la possibilità di ironizzare su noi stessi è fondamentale, non potevo non cogliere al volo l’occasione di prendermi in giro rispetto ai vizi personali, come l’idea del mio trasformismo per cui sono diventato un meme. Per “Chiami il mio agente” pensavamo a un volto che tutti conoscessero, alla fine ho proposto io Che Guevara. Mentre giravamo non riuscivo a guardare in faccia Anna (Ferzetti, ndr.) e le mie figlie per quanto ridevano».

 

È mai rimasto intrappolato in un personaggio?
«Non credo, ma non lo misuro. Quando Anna ha interpretato la serie delle “Fate ignoranti” ho notato che il suo modo di camminare era diverso, immagino accada pure a me. Non ho mai avuto la sensazione di farlo per paura di essere meno concentrato, mi immergo in ciò che faccio, non al punto di cancellarmi rispetto alla mia vita».

 

Però tra tutti quelli che ha interpretato avrà qualcuno che gli è rimasto addosso...
«Buscetta, Di Vittorio e Pinelli ho faticato ad abbandonarli: avrei voluto investigarli di più, perché mi interessano certe vicende della storia d’Italia».

 

In “Boris 4” Fabrizio Gifuni si spaccia per lei, dicendo di essere Favino dopo 15 ore di trucco. Come l’ha presa?
«Con il sorriso, anche se mi fa un po’ impressione che ogni tanto spunti fuori il mio nome, non faccio caso al fatto che sono una persona conosciuta. Noto, certo, che l’ironia sul “Non ci sono più ruoli, li fa tutti Favino” continua, forse perché se un mio film esce al cinema e dopo va su piattaforma pare che io stia sempre sullo schermo. Ma se pensiamo ai vari Mastroianni e Gassman, loro sì che stavano sempre sul set e sempre al cinema».

 

A che punto della carriera sente di essere?
«Non so, ragiono sempre rispetto a quello che so fare, non a quello che mi viene riconosciuto: vedo bene il margine di crescita rispetto alla mia idea di questo mestiere».

 

Non è ancora arrivato dove voleva?
«Non so se ci arriverò mai, ho un’idea molto alta di questo lavoro. Cate Blanchett in “Tàr” è una grande ispirazione, come anche attori meno noti ma ugualmente sbalorditivi, come Jesse Plemons. Poter scegliere le cose che faccio è un lusso che ho da qualche anno, e mi piace interpretare film come “L’ultima notte di Amore” per farmi vedere dal pubblico in modo diverso».

 

Come si rapporta con i più giovani?
«Mi dedico ai ragazzi con la scuola che dirigo a Firenze (Oltrarno, ndr.): bisogna avere fiducia in chi fa un percorso serio, è scivolosa la tentazione del successo sui social».

 

Il talento oggi paga ancora?
«Se si lavora seriamente, dove c’è talento quel talento vince. Come attore mi lascio ispirare dai nuovi talenti come i ragazzi con cui ho lavorato nel film Netflix “Il comandante” o quelli visti in “Mare Fuori”».

 

Siamo appena stati alla Berlinale: all’estero il cinema italiano è molto apprezzato.
«I nostri film piacciono, circolano, siamo noi che frustriamo le ambizioni, pur avendo armi e specificità storica per raccontare come nessuno. Dovremmo smettere di avere sudditanza psicologica per il cinema americano, che peraltro non funziona più come un tempo. Persino maestri come Spielberg raccontato se stessi e vengono sorpassati da cinematografie più stimolanti e originali. Un grande autore? Penso a Thomas Vinterberg, austriaco. A Charlotte Welse, scozzese. O a certi italiani che non hanno da invidiare a nessuno».