I repubblicani vogliono estendere a tutti il divieto per i funzionari pubblici di usare il social cinese. Ma per molti democratici è solo propaganda e la sicurezza nazionale non è in pericolo

La questione è politica, la cybersecurity c’entra poco. Le elezioni presidenziali del 2024 sono vicine e nessuno dei due partiti vuole apparire debole contro l’avversario cinese». Nel mezzo della bufera che ha travolto TikTok negli Stati Uniti, Anupam Chander, esperto di regolamentazione globale delle nuove tecnologie alla Georgetown University di Washington, definisce quella del Congresso una battaglia contro una “minaccia fantasma”.

 

Dopo le tensioni legate al pallone spia abbattuto all’inizio di febbraio, le turbolente relazioni diplomatiche tra Usa e Cina passano ora dalla piattaforma social. La Commissione Affari Esteri della Camera ha votato la scorsa settimana a favore di un disegno di legge che - qualora passasse il vaglio dei due rami del Congresso - consentirebbe al Presidente democratico Joe Biden di vietare TikTok a livello nazionale. Un modo per demolire «il cavallo di Troia del Partito Comunista Cinese», stando alle metafore del deputato texano Michael McCaul, a capo della Commissione repubblicana.

 

Il timore è che TikTok - attraverso la società madre ByteDance, con sede a Pechino - consegni dati sensibili dei cento milioni di americani iscritti al governo cinese che potrebbe utilizzarli per operazioni di intelligence e per disseminare campagne di disinformazione. Già a fine febbraio, l’Amministrazione aveva dato alle agenzie federali trenta giorni di tempo per eliminare l’app dai dispositivi governativi. D’altra parte, il medesimo vento soffia in Canada e anche oltreoceano, dove esecutivo Ue e Parlamento europeo hanno vietato TikTok dai dispositivi ufficiali.

 

Se i repubblicani si dimostrano compatti sull’ipotesi di una messa al bando per tutta la popolazione (nel 2020 ci aveva provato anche Trump con ordini esecutivi poi bloccati in tribunale), in casa democratica le idee sono più sfumate e le posizioni più variegate. Prevale cautela. Una soluzione così drastica, secondo alcuni, colpirebbe numerose imprese americane ed europee. Ma i dubbi sono legati soprattutto a libertà di parola e costituzionalità. Secondo indiscrezioni raccolte dal New York Times, però, la Casa Bianca starebbe valutando di appoggiare la proposta del senatore democratico della Virginia Mark Warner, che darebbe al governo maggiore potere di controllo su app e servizi rischiosi per la sicurezza dei dati. Inclusa TikTok.

 

Sul divieto nei dispositivi pubblici la comunità scientifica è più o meno concorde, resta però circospetta su un ban assoluto. «Abbiamo a lungo sostenuto la libertà di informazione attraverso i confini, criticando altri Paesi quando cercavano di limitarla. E adesso?», si chiede Anupam Chander. L’avvertimento è quello di non prendere in prestito i metodi usati da Pechino, che blocca tra gli altri Twitter, Facebook e Instagram. E aggiunge: «Ci sono altri modi di impossessarsi dei nostri dati, primo tra tutti l’hacking. Questa vicenda distoglie l’attenzione da serie misure di cybersecurity in grado di proteggere la privacy, incluso il controllo delle aziende che vendono informazioni a terzi».

 

Il ricercatore ha fatto parte di un ristretto gruppo di addetti ai lavori a cui TikTok aveva anticipato il Progetto Texas, un piano di ristrutturazione da 1,5 miliardi di dollari avviato due anni fa. Obiettivo, rassicurare gli americani trasferendo tutti i dati degli utenti raccolti dal colosso sui server della statunitense Oracle, con sede ad Austin. «TikTok ha accettato di adottare sistemi di sicurezza senza precedenti, superiori a quelli di quasi tutte le altre applicazioni esistenti», ci dice il professore. Sforzo massiccio e inutile. L’app resta nel mirino del Congresso che il prossimo 23 marzo sentirà l’amministratore delegato Shou Zi Chew.

 

«Dare al governo la possibilità di bandire specifiche app per tutti creerebbe un precedente molto pericoloso», afferma Michael Daniel, ceo della Cyber Threat Alliance. Durante l’Amministrazione Obama, è stato a capo del comparto cybersecurity della Casa Bianca. Per l’esperto bisognerebbe ragionare su due binari. «È giusto non installare TikTok sui dispositivi governativi; ma un ventenne che fa video social e vive a Cleveland non è un bersaglio dei servizi segreti stranieri. Lo sono funzionari pubblici e politici».

 

Intanto è partita la campagna #DontBanTikTok, lanciata dalla no-profit per i diritti digitali Fight for the Future che chiede leggi che si applichino a tutte le aziende Big Tech, comprese le americane come Meta, impegnate in raccolte massicce di dati personali. Ma una distinzione, secondo Daniel, occorre farla: «Le aziende con sede in Cina hanno un problema intrinseco: se il governo chiede i dati di qualsiasi server, loro si adegueranno. Questo non vale in Usa o in Europa. Lo stato di diritto è diverso». Per Daniel sono altri i campi di battaglia sul fronte cinese. «Bisogna continuare ad investire in innovazione, a mantenere la nostra leadership in tecnologie come l’intelligenza artificiale, l’informatica quantistica, la bioinformatica».

 

Il pugno duro del Congresso, al momento, è sferrato solo su carta. Prima di arrivare sulla scrivania di Biden, il disegno di legge dovrà essere approvato da Camera e Senato. È però sintomatico dell’aria che tira e si aggiunge al plico di altre proposte simili accatastate negli ultimi anni. «Di sicuro non passerà al Senato. E se pure dovesse riuscirci, il Presidente porrebbe il suo veto», assicura Michael Daniel. Tra le voci autorevoli in questa direzione, l’American Civil Liberties Union per cui un ban violerebbe il Primo Emendamento. «Abbiamo il diritto di ricevere informazioni, anche quelle provenienti da Paesi avversari», concorda il professor Chander. «Durante la Guerra Fredda, quando il Congresso cercò di arginare il flusso di propaganda dall’estero, la Corte Suprema si oppose».