Il missile di Goshka Macuga. Le opere di Maurizio Cattelan, Lynette Yiadom-Boakye e altri autori. A Palazzo Strozzi “Reaching for the stars”, una mostra per i 30 anni della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. “Una collezione è fatta di scoperte e anticipazioni, ma è anche frutto di errori, occasioni mancate”

Un razzo alto quindici metri dal colore metallico e una base blu domina il grande cortile di quella pietra del Rinascimento italiano che è Palazzo Strozzi. Le colonne, le due ariose logge del primo piano e il loggiato stanno a guardare rendendo quell’ambiente, un tempo persino luogo teatrale dell’Accademia della Crusca, ancora più scenografico e significativo.

 

Restiamo a guardare anche noi, rapiti da tanta bellezza, espressa anche da quell’opera dal forte impatto visivo ed emozionale con cui l’artista polacca Goshka Macuga ci fa salire a bordo, regalandoci uno slancio verso l’alto, verso un futuro indefinito, desiderato o solo immaginato, capace comunque di incarnare i dilemmi che stiamo affrontando, l’aspirazione come il nostro fallimento. Si chiama “Gonogo” ed è il mezzo più veloce ed originale per “Reaching for the Stars”, volendo citare la nuova mostra che lo ospita fino al 18 giugno, per raggiungere e celebrare le stelle dell’arte contemporanea a Firenze, il modo migliore per celebrare i trent’anni della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo attraverso oltre 70 opere, da Maurizio Cattelan a Lynette Yiadom-Boakye. «Una collezione generazionale, mi piace definirla così perché ho conosciuto prima gli artisti e poi le loro opere d’arte», ribadisce durante la visita Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, anima e mente della fondazione: «Avevamo trent’anni, leggevamo gli stessi libri e vedevamo gli stessi film, avevamo tutto o quasi in comune e ci frequentavamo senza sapere che in quel momento stavamo crescendo insieme. Oggi continuo a seguirli, a guardarli, ad osservarli ed acquistarli, ma la nostra è anche una collezione che vuole restare giovane, che va avanti, ed è per questo che guardo anche gli altri, perché una collezione deve crescere e sapersi evolvere».

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Aggiunge Arturo Galansino, direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi e curatore della mostra: «Una grande collezione si forma grazie a una irrefrenabile passione, spinti da una curiosità continua, oltre che, ovviamente, dalla propria cultura e dal proprio gusto. Una collezione è fatta di scoperte e anticipazioni, ma è anche frutto di errori, occasioni mancate e può comprendere qualche assenza ingombrante, anche perché l’universo dell’arte è infinito».

Secondo Re Rebaudengo, l’arte ha la funzione di aiutarci a pensare. Ci apre la mente, sostiene, ci insegna a parlare di meno e ad ascoltare di più, ci fa trattare temi importanti molto prima che diventino attuali. Un esempio significativo in tal senso, è “Thaw (Disgelo)” dell’americano Doug Aitken, una video installazione nei sotterranei della Strozzina con fotografie e filmati legati a un’esperienza dell’artista su un ghiacciaio in Alaska, continuando un lavoro già iniziato venti anni fa, che riconduce lo spettatore a una pausa di riflessione nel mondo frenetico in cui viviamo per il bene dell’ambiente e non solo. «Se l’arte la vuoi ascoltare ti dà dei messaggi», precisa Re Rebaudengo. I suoi e quelli ricevuti dagli amici artisti dell’epoca, oggi superstar per restare in tema, sono stati tanti e continui in questi anni, a cominciare da Londra, punto d’inizio del viaggio della collezione nel 1992, con Anish Kapoor, che poco prima aveva vinto il Turner Prize con le sue sculture in pigmento. La scultura della serie 1000 Names, «è stata il mio inizio», tiene a precisare Re Rebaudengo, presidente dell’omonima Fondazione con sedi a Guarene, Torino, Madrid e dal 2024 anche a Venezia, sull’isola di San Giacomo. “Il razzo e la grande sirena (Nixe)” in mostra di Thomas Schütte, dopo Firenze andranno lì. Quel palloncino rosso di Kapoor che assomiglia a un punto, ma anche al naso di un clown, contiene un nero potente e parla di vita, morte e rinascita, un po’ come il tavolo e la sedia da ufficio chiusi in una cella (“The Acquired Inability to Escape, Inverted and Divided”) di Damien Hirst e le sue farfalle (“Love is Great”), solo in apparenza libere. Splendida, quanto triste, la bambina a testa in giù (“Ariane 5”) del londinese Glenn Brown e le gambe aperte (“Love Me”) di Sarah Lucas, maestra nel rovesciare i luoghi comuni sul corpo femminile. Il nostro viaggio a bordo del razzo continua nell’universo disseminato di vere stelle luminose di Thomas Ruff, tra i campi magnetici di Albert Oehlen, le aurore spaziali di Wolfgang Tillmans, i replicanti ibridi di Avery Singer, le spazzole di Lara Favaretto, l’orso polare con piume di Paola Pivi e “Il lupo (ff#02)” di Giulia Cenci, l’artista più giovane (è nata nel 1988) tra i presenti.

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«Ogni uomo è un artista», scrisse Joseph Beuys, amato e citato da Maurizio Cattelan, che trasformò nel 2000 quella frase in «Io non sono davvero un artista» per “La rivoluzione siamo noi”, opera/immagine di questa mostra dove si ritrae appeso per il bavero a un appendino di Marcel Breuer. Troverete anche il suo scoiattolo di “Bidibidobidiboo”, tra le preferite della collezionista sabauda, “Lullaby e la stella Christmas 95”, ma anche uno degli elegantissimi “tableaux vivants” di Vanessa Beecroft, l’autoritratto in cera di Pawel Althamer, una foto di Shirin Neshat, le provocazioni di Josh Kline e “Fracture” del moscovita Sanya Kantarovsky che evoca un’antica pietà, tra le figure contorte di Schiele e le stilizzazioni di Picasso. Purtroppo, come nei migliori viaggi, siamo costretti a scendere, anche se poi arriva il gallese Cerith Wyn Evans a ricordarci con l’opera/palindromo “In Girum Imus Nocte et Consumimur Igni” che, comunque vada, «giriamo in tondo nella notte e siamo consumati dal fuoco». Ognuno ha il suo ed è bellissimo.