Meloni aveva detto di non voler utilizzare metodi dei predecessori. Non è andata così

Venerdì 17 febbraio un decreto legge di tre articoli ha scritto il de profundis sulla cessione dei crediti fiscali e sullo sconto in fattura, mentre restano le detrazioni. Un colpo mortale inaspettato, dato che il 1° febbraio, con il decreto Aiuti quater, il governo, prima delle elezioni in Lazio e in Lombardia, teneva a far sapere di aver risolto la questione dello smobilizzo dei bonus fiscali, impegnando la Sace a rilasciare una garanzia pubblica del 90% sui finanziamenti degli intermediari finanziari, previa cessione dei crediti fiscali. Sembrava che con la garanzia pubblica si potesse risolvere questa incancrenita questione, anche se le banche avevano fatto sapere di aver esaurito per il 2023 la tax capacity, indispensabile per l’acquisto dei crediti fiscali edilizi.

 

E invece no. Tutto è saltato. Le vicende del superbonus rilevano l’inadeguatezza del Parlamento, dei governi e degli apparati dello Stato. Non è concepibile che si sia entrati nella nassa del superbonus gridando solo ai lestofanti. Bisognava adoperarsi per capire cosa covasse sotto la cenere, pena il dissesto di migliaia di imprese, l’eventuale disoccupazione di 900 mila lavoratori e il disagio di famiglie e amministratori di condomini.

 

La vicenda si è “casualmente” svelata il 14 febbraio in commissione Finanze e Tesoro del Senato. Lì il direttore delle statistiche di Eurostat Luca Aloia ha sostenuto che il superbonus «non è debito pubblico ma deficit», trattandosi di «crediti fiscali pagabili» e in quanto tali trasferibili. Se i bonus fiscali devono essere contabilizzati come deficit, i 110 miliardi di euro dichiarati dal ministro Giorgetti vanno imputati in bilancio per cassa e non spalmati in dieci anni. Addio alla possibilità per il governo di agire quest’anno, perché i famigerati 110 miliardi, indipendentemente dagli importi che Istat attribuirà ai deficit del 2021 e del 2022, incrementando il livello del disavanzo del 2023, bloccherebbero ogni manovra.

 

Meraviglia lo scoppio di un simile tsunami perché Eurostat nel 2021 accettò, solo «temporaneamente», su sollecitazione dell’Istat, che i crediti maturati con il superbonus fossero classificati «non pagabili», in attesa dei necessari provvedimenti a livello europeo. La scadenza del superbonus, pertanto, in origine indicata nel 31 dicembre 2022, fu prorogata nel 2021, con differenziazioni, al 2023, senza preoccuparsi della «temporaneità» indicata da Eurostat. È strano che il ministro dell’Economia dichiari che «serve agire di concerto, di sistema, per risolvere questo bubbone che si è creato». La presidente Meloni fino a ieri aveva dato la sensazione di non voler utilizzare i metodi («provvedimenti di sistema») adottati dai precedenti governi per superare situazioni di gravi crisi, come fece Ciampi con l’accordo sulla politica dei redditi per combattere l’inflazione. Il clima parrebbe cambiato dopo il “pasticcio” del decreto Aiuti quater, considerata la sua apertura a modifiche al decreto legge che «il Parlamento potrà apportare in fase di conversione».

 

Il 20 febbraio si sono tenuti due importanti incontri. Il primo con l’Abi, la Cdp, la Sace e l’Agenzia delle Entrate e il secondo con tutte le associazioni dei costruttori. Sembra che il governo stia intravedendo una via per uscire dal ginepraio. Per smobilizzare i 20 miliardi di crediti incagliati, su indicazione dei costruttori, è previsto il ripristino della tax capacity delle banche con le entrate degli F24 versate dai clienti, mentre per il resto dei crediti fiscali che matureranno quest’anno si ipotizza il ricorso a strumenti finanziari ibridi, quali le cartolarizzazioni.