I ritardi di Jeff Bezos e le difficoltà europee rendono la sua azienda la dominatrice incontrastata. Tanto che gestisce l’intera filiera delle missioni anche per la Nasa

Elon Musk la fondò con l’obiettivo di portare l’Umanità su Marte. Era il giugno del 2002 e un magazzino in affitto al 1310 di East Grand Avenue a El Segundo, sobborgo di Los Angeles, divenne la sede della Space exploration technologies corporation, di lì a poco nota al mondo come SpaceX. Nelle intenzioni di Elon Musk, avrebbe dovuto evitare gli sprechi degli appaltatori governativi e, con razzi chiamati come la più iconica delle astronavi di Star Wars, i “Falcon”, sarebbe riuscita a portare in orbita entro la fine del 2003 un carico di 635 chilogrammi a un prezzo di 6,9 milioni di dollari, in un mercato in cui lanciare 250 chili costava almeno 30 milioni.

 

Se si escludono tre esplosioni e un ritardo di cinque anni – il Falcon arrivò in orbita per la prima volta solo nel 2008 - SpaceX è andata ben oltre quanto si aspettassero tutti (tutti, tranne Musk): oggi, come ha ribadito lo static fire test del 9 di febbraio degli oltre 30 motori che muoveranno la nuova astronave Starship, la compagnia spaziale domina incontrastata il mercato dei lanciatori. E non solo.

 

Con una valutazione di 137 miliardi di dollari (Cnbc) e dopo un round di investimento che a inizio gennaio ha portato nelle sue casse 750 milioni, l’azienda è un esempio unico nel suo genere. È in grado di gestire l’intera filiera delle missioni spaziali: dalla manifattura di razzi vettore, di veicoli per il trasporto e di satelliti, come quelli della costellazione per la connettività a banda larga Starlink, fino alla rete di supporto a terra, che assicura la regolare erogazione dei servizi. I lanci sono venduti a una clientela vasta, che comprende sia realtà istituzionali come la Nasa, il governo statunitense e l’Agenzia spaziale europea, sia piccole compagnie, compresi i privati che aspirano a essere astronauti per una decina di giorni.

 

La posizione dominante è buona parte da attribuire alla gestione di Gwynne Shotwell, la presidente, oltre che chief operating officer, che guida SpaceX schermandola anche dalle sempre più controverse esternazioni di Musk. I successi sono incontestabili: con 10mila dipendenti, l’azienda costruisce quotidianamente diversi Starlink e, nel 2022, ha lanciato un Falcon 9 ogni sei giorni, totalizzando 61 dei 78 lanci complessivi degli Stati Uniti (fonte: Nature). È una frequenza insostenibile per chiunque altro e, fino a pochi anni fa, neanche immaginabile. Eppure è solo l’inizio, perché l’obiettivo del 2023 è di effettuare cento lanci (solo a gennaio sono stati sette) sfruttando a pieno ritmo le tre rampe della compagnia, sparse tra la California (nella base della Space Force di Vandenberg) e la Florida (a Cape Canaveral, dove SpaceX affitta la piattaforma 39A dalla Nasa e la 40 dalla Space Force). Tutto è gestito dal centro di controllo di Hawthorne, dove l’azienda dispone di due sale controllo indipendenti, capaci di gestire lanci in contemporanea.

 

Il 5 ottobre dell’anno scorso, SpaceX ha cercato l’ennesimo record: effettuare tre lanci in 31 ore. Il primo, dalla Florida, è stato quello della missione “Crew 5”, deputata a portare sulla Stazione spaziale internazionale (la Iss) quattro astronauti. Sette ore dopo, mentre la prima control room seguiva l’avvicinamento della capsula Crew Dragon endurance alla Iss, la seconda ha gestito il lancio, dalla California, di un Falcon 9 con 52 Starlink a bordo e, una volta rilasciati gli apparati in orbita, ha iniziato i preparativi per il lancio di due satelliti per collegamenti radiotelevisivi della Intelsat, dall’altra rampa di Cape Canaveral. A 31 ore dalla partenza degli astronauti, nel frattempo arrivati sulla Iss, il terzo decollo è stato rinviato a causa di una piccola perdita di carburante. Record sfumato, ma lancio effettuato con successo due giorni più tardi.

 

Un’attività simile è resa possibile dal riutilizzo del primo stadio dei razzi, completo di motori, che viene velocemente controllato e preparato per il decollo successivo. Finora il turnover più rapido è stato di 21 giorni e il numero di riusi per un Falcon 9 è arrivato a 15. Gli ingegneri avevano ipotizzato un limite di dieci.

 

Interessante, in questi termini, solo per gli addetti ai lavori, SpaceX diventa rilevante per chiunque quando si consideri che i suoi meriti procedono di pari passo con i demeriti dei concorrenti, combinati con la delicata situazione geopolitica.

 

Sul fronte dei lanciatori, il razzo New Glenn di Blue Origin, la compagnia dell’altro “space billionaire” Jeff Bezos, è in ritardo, così come l’Ariane 6 dell’Esa. Il panorama europeo non vive un periodo felice: al failure della prima missione commerciale dell’italiano Vega C, lo scorso 21 dicembre, è seguito quello di Virgin Orbit, nel primo tentativo di lancio dal Regno Unito, nella notte fra il 9 e il 10 gennaio.

 

Sul fronte del trasporto umano, Boeing non è ancora riuscita a fare volare Starliner, lasciando così a SpaceX campo libero per i lanci dal territorio statunitense. Oggi sono le capsule Crew Dragon a portare in orbita gli astronauti della Nasa, quelli delle aziende private e i facoltosi astro-turisti.

 

La guerra in Ucraina ha frattanto distratto dal mercato (almeno occidentale) i lanciatori russi, in particolare Soyuz e Proton, aprendo un ulteriore varco commerciale. Tanto che SpaceX sta addirittura portando in orbita i satelliti OneWeb, potenziali concorrenti di Starlink, che avrebbero dovuto volare sui Soyuz. Lo stesso è successo e succederà a missioni europee, come per l’imminente lancio del telescopio Euclid dell’Esa.

 

Anche per quanto riguarda i cargo, Space X ha una marcia in più perché, a differenza delle russe Progress e delle americane Cygnus, le sue capsule non bruciano nel rientro in atmosfera e possono riportare a terra il materiale degli esperimenti scientifici.

 

Oltre a essere responsabile di tre quarti dei lanci americani e di un terzo di quelli mondiali (186 nel 2022), Space X è la compagnia con più satelliti propri in orbita, con oltre 3mila Starlink. Negli ultimi anni, da sola, ha portato nello spazio più apparati di quanti ne siano stati lanciati in decenni dal resto del mondo. Come testimoniato dalla guerra in Ucraina, e già raccontato su queste pagine, gli Starlink sono ormai discriminanti anche nello scenario bellico. Non è un caso che qualche giorno fa il consigliere presidenziale ucraino Mykhailo Podolyak abbia criticato ferocemente il rifiuto, da parte dell’azienda di Musk, di supportare i droni di Kiev: «Non consentiamo usi per scopi offensivi», ha spiegato Shotwell. Non bastasse, SpaceX monopolizza il mercato dei lanci umani statunitensi. Una situazione destinata a rafforzarsi con il nuovo veicolo Starship che, pur non avendo ancora fatto un test orbitale, è già un pilastro del programma Artemis: ne costituirà infatti il lander, cioè il mezzo deputato, da Artemis III nel 2025, a sbarcare gli equipaggi sulla Luna.

 

Quando ha deciso di affidare a una sola azienda il sistema di allunaggio, la Nasa si è legata mani e piedi a SpaceX. A oggi, il nuovo bando per sviluppare un secondo sistema di allunaggio è ancora aperto e non è da escludere che quando, pochi giorni fa, l’amministratore della Nasa, Bill Nelson, ha suonato l’allarme circa la possibilità che la Cina arrivi sulla Luna prima degli Stati Uniti, l’intenzione fosse anche di ricordare al Congresso quanto le ambizioni occidentali siano, di fatto, ostaggio delle capacità di una, e una sola, compagnia.

 

Mentre i piani marziani di Musk possono far sognare o sorridere, che da SpaceX dipendano la gran parte degli accessi allo spazio e gli equilibri del mondo è un fatto. E parecchio più serio.