L’attore belga è protagonista della nuova serie liberamente tratta dal cult movie di Sergio Corbucci. Ma la sfida più ardua non è stata ridare vita al personaggio western. “Sono un grande fan del cinema italiano, sono cresciuto guardando i film di Bertolucci, Pasolini, Visconti, e trovo che oggi ci sia un nuovo rinascimento del cinema italiano”

La sfida più ardua per lui non è stata ridare vita sullo schermo al personaggio western di Django, né confrontarsi con la performance di Franco Nero. È stata doversi ritrovare, per esigenze di sceneggiatura, a maneggiare le armi. «Non le ho mai amate, tanto meno in questo momento storico: l’unico modo che avevo per approcciare al ruolo era tornare con la mente ai giochi di infanzia, a quando giocavamo a cowboy e indiani. Trattavo le pistole come fossero bambole, altrimenti non avrei potuto neanche avvicinarmici». Non è uno che le manda a dire, l’attore belga Matthias Schoenaerts, classe ’77, protagonista della nuova serie liberamente tratta dal cult movie di Sergio Corbucci, dal 17 febbraio su Sky e Now. Figlio d’arte dell’attore Julien Schoenaerts, ha debuttato sul grande schermo a 15 anni e oggi che ne ha 45 dice di aver imparato una lezione importante: «Per un attore non esiste nessun momento d’oro».

 

Sulla carta non si direbbe: trent’anni di carriera, l’atteso film “The way of the wind” con Terrence Malick in arrivo e un ruolo importante come Django.
«Interpretare Django per me è un momento alto e sono grato per quello che faccio, ma mi limito a lavorare con grande cuore e impegno. Lo sappiamo, la vita toglie e la vita dà, l’unico modo per sopravvivere è andare avanti passo dopo passo».

 

Passo dopo passo il suo Django arriva nella città di New Babylon, dove si vive liberi e uguali. C’è spazio oggi per una nuova Babilonia?
«C’è spazio per una nuova etica. C’è bisogno di un nuovo modo di governare. La vera crisi oggi nel mondo non è economica, è politica. Il mondo non soffre tanto la fame, soffre a causa della cattiva amministrazione di certi governi».

 

Esistesse davvero Django, aiuterebbe?
«Quanto meno proverebbe a dare un contributo. Ogni macrosistema parte da una microazione, ecco perché è importante che ognuno di noi faccia la sua parte. Tutto parte da come ci relazioniamo gli uni con gli altri, da come rispondiamo al vicino di casa o al collega, da come trattiamo l’amico e il parente, ma anche lo sconosciuto. Dobbiamo riconoscerci nell’altro, capire che ognuno di noi porta la sua croce, che a volte è la stessa croce. Capire qual è l’intenzione che muove ogni nostro gesto, sta qui ogni possibilità di cambiamento».

 

Come fa un pacifista convinto a interpretare bene un cowboy?
«Tirando fuori tutto l’entusiasmo dell’infanzia. E assicurandosi, come ho fatto io, che l’immagine del personaggio rilasciata nel mondo fosse senza armi. Buttiamole via».

 

Era già amante dei western prima di girare la serie?
«Come si fa a non esserlo, è un genere che ha dentro di tutto, il mistero, la colpa, la redenzione, la perdita, le crisi sociali e personale. Poi da amante della natura quale sono l’idea di passare la maggior parte del tempo nella vastità della natura mi piaceva».

 

Si è ispirato alla performance di Franco Nero?
«Me la ricordo, ma non l’ho voluta rivedere prima di girare la serie, per non farmi influenzare. Nero resta un’icona indiscussa, non a caso ha anche una parte in questa serie».

 

Il suo Django è un eroe che soffre, si è divertito a rovesciare gli stereotipi della mascolinità tipica da film western?
«Quella di Django è una mascolinità più approfondita e raccontata a 360 gradi: non è lui ad essere vulnerabile, tutti gli esseri umani lo sono. Magari fino a due secoli fa gli uomini non lo davano a vedere, ma la fragilità fa parte di noi. Tutto sta nel “come” raccontarlo, in questo una serie come Django può risultare innovativa».

 

Tra l’altro è la prima serie della sua carriera. Come l’ha vissuta?
«Ho scoperto che mi piace: offre molto più tempo per ampliare e approfondire la ricerca del personaggio».

 

Come si è trovato ad essere diretto da Francesca Comencini?
«Sono un grande fan del cinema italiano, sono cresciuto guardando i film di Bertolucci, Pasolini, Visconti, e trovo che oggi ci sia un nuovo rinascimento del cinema italiano. Ho amato profondamente l’energia di Francesca, il suo modo di lavorare con metodo e cuore, la sua attenzione scrupolosa ai dettagli, il suo essere sempre “dentro” al film. E poi la sua grande pazienza».

 

Pazienza per cosa?
«L’ho riempita di messaggi. Ogni sera le scrivevo idee, intuizioni, frammenti di poesie».

 

Lo fa con tutti i registi?
«Non sono uno che crea a tavolino il personaggio, preferisco trovarlo mentre lo dipingo sul momento, attraverso un processo creativo continuo. Per cui sì, mi capita di disturbare il regista con nuove idee per il giorno successivo, a volte ispirate da una riflessione razionale, altre da un impeto interiore istintivo. Al personaggio devi dare il cuore, l’elettricità, altrimenti viene qualcosa di finto».