CINEMA
Quanto ci manca il sorriso di Massimo Troisi
“Laggiù qualcuno mi ama” è l’emozionante omaggio di Mario Martone al grande attore che il 19 febbraio avrebbe compiuto 70 anni. Un viaggio tra memorie, testimonianze e aneddoti
Se Massimo Troisi fosse stato un grande scrittore qualcuno dopo la sua morte prematura avrebbe frugato tra le sue carte e ci avrebbe dato un'edizione critica delle sue opere fitta di inediti e note a pie' di pagina destinata agli specialisti. Ma per fortuna Troisi, che il 19 febbraio avrebbe compiuto 70 anni, non era uno scrittore. Era un grande artista popolare, forse l'ultimo vero grande artista popolare espresso dal nostro cinema. Così, a quasi 30 anni dalla scomparsa (4 giugno 1994, sembra incredibile), continua ad aggiungere vita alla vita, cioè consapevolezza, buonumore, intelligenza. Con grazia preziosa e tutta sua che un altro grande uomo di spettacolo di diversa matrice, Mario Martone, ci restituisce in un documentario molto personale, anche se fitto di testimonianze (Fofi, Piccolo, Sorrentino, Ficarra e Picone, The Jackal, molti altri), ed emozionante come pochi: “Laggiù qualcuno mi ama”, dal 23 in sala dopo l'anteprima al Festival di Berlino.
Martone infatti ha consultato le carte sconosciute di Troisi, i tanti disegni, appunti, bigliettini vergati con grafia ora nitida ora incerta, che il futuro autore di “Ricomincio da tre” accumulava fin da ragazzo. Una miniera di scoperte (e talvolta di tuffi al cuore, basti la poesia “La sorte e la morte”) che la sua compagna e sceneggiatrice Anna Pavignano, testimone e complice fondamentale del film di Martone, conservava aspettando qualcuno capace di riportarla in vita. Come fa appunto Martone intrecciando quei foglietti con testimonianze e citazioni dal cinema, dal teatro e dalla tv di Troisi. Che nel confronto con la sua epoca, e col presente, emerge con la limpidezza di una voce che non ci ha mai lasciato ma parla ai giovani di oggi come fosse uno di loro.
Lo dice il gran finale, con quella folla di ragazzi riuniti per “Il Postino” nell'arena del Piccolo America a Monte Ciocci, a Roma. Ma è il senso complessivo di un film che restituisce a Troisi profondità, mistero, spessore politico ed esistenziale, estraendo dalla sua “scandalosa mitezza” una consapevolezza mai esibita ma radicata in tutta la sua poetica. Una poetica modernissima, capace di crescere e affinarsi anche quando recitava per altri, fossero lo Scola di “Splendor” e “Che ora è”, o il Radford del “Postino”, cui lui stesso affidò la regia dopo aver deciso di non andare negli Usa per un trapianto, malgrado il parere dei medici (“Non farò “Il postino” col cuore di un altro”).
Non molti ricordano infatti che Troisi rinunciò a salire sul palco di Sanremo quando scoprì che avrebbe dovuto consegnare in anticipo il suo testo (e che non doveva nominare “terremoto, politica e religione”), o che un esilarante sketch sull'Annunciazione (lui era Maria, Lello Arena e Enzo Decaro gli angeli)
costò al gruppo e alla Rai una denuncia per vilipendio alla religione. Pochi videro nella fragilità e nell'irrequietezza dei suoi personaggi una crisi del maschio con cui ancora facciamo i conti. Nessuno infine, se non Dario Fo, tra quelli presenti nel documentario, sembrava trattarlo da uguale, i colleghi più anziani lo tenevano un po' a distanza, come un alieno. Mentre Troisi, con la sua ritrosia, nascondeva il battito prepotente dell'autobiografia, e della malattia che lo minava fin da ragazzo, in quei foglietti privati, o in allusioni che tutti cercavano di non vedere (quanto amore e quanta morte nei suoi film...).
“Eppure un sorriso io l'ho regalato”, scrive Troisi in uno dei suoi appunti citando la ''Antologia di Spoon River” riscritta da Fabrizio De Andrè. Quel sorriso arriva intatto fino a noi.