Gli aneddoti con Gassman e Wertmüller. La vita in scena, le riflessioni sull’esistenza. E ora la celebre mattonella sulla Walk of Fame a Hollywood. “Finalmente sono una stella. Bello che me la diano da vivo, non trova?”

«Bello che me la diano da vivo, non trova?». Così Giancarlo Giannini, 80 anni, commenta la sua stella sulla Walk of Fame a Hollywood. Un riconoscimento che lo inorgoglisce, specie pensando che «a Venezia neanche un gatto nero mi hanno mai dato». Schietto, diretto, divertito e divertente, ama interpretare personaggi controversi. Come lo spregiudicato Dino De Gregorio, fondatore dell’agenzia di calciatori più potente in Italia visto nella serie su Sky e Now “Il grande gioco – I segreti del calcio mercato”. «Un personaggio alla Berlusconi, di quelli che comprano palazzi, squadre, giocatori, calato un ottimo racconto dei retroscena del calcio italiano».

Ironia della sorte, lei non è mai stato un patito di calcio…
«Divento tifoso solo per le partite importanti, ma non ne so molto. Per interpretare De Gregorio mi sono informato su questi procuratori che compravendono giocatori, ho persino parlato con un paio di loro a Milano confessando di non capirci granché, mi hanno risposto che ero sulla strada giusta».

[[ge:rep-locali:espresso:387208740]]

De Gregorio dopo trent’anni di carriera non si diverte più, le capita mai?
«Ogni tanto sì, il mestiere dell’attore diventa ripetitivo. Viviamo in un mondo in cui l’immagine attraversa tutto e arriva a tutti, si vive di numeri, like, pollici in su o in giù e ci si limita a bissare i successi di ieri. Manca il coraggio di mettersi in gioco. Io non so se sono un bravo attore, mi sento sempre un perito elettronico che s’impegna e studia più possibile, ma ho sempre cercato di rischiare, diversificando tutti i miei ruoli».

 

Questo è un Paese che fatica a fare spazio ai giovani, lei crede nel ricambio generazionale?
«Ma certo, i giovani sono il futuro, il guaio è che i politici non fanno niente per loro. Io ho cercato di sostenerli sempre, ho interpretato varie opere prime, insegnato vent’anni al Centro Sperimentale. La politica invece non muove un dito per le nuove generazioni, per questo se ne vanno dall’Italia».

 

Anche i suoi figli hanno fatto questo tipo di scelta?
«I più piccoli vivono uno a Berlino e l’altro a Londra. Sono convinto che non bisogna vietare ai figli l’esplosione delle loro fantasie, già la scuola tarpa un po’ le ali, vanno lasciati liberi. Come padre non sono sempre stato vicino ai miei figli, andavo in giro per il mondo a fare film, però ho sempre pensato al loro futuro lasciando massima libertà e aiutandoli in quello che volevano fare».

 

Le capita ancora di firmare autografi al posto dei vari Tognazzi, Gassman, Manfredi?
«È un periodo che viaggio meno, ma quando me li chiedono, scambiandomi per uno di loro, li accontento. Non potrei mai deluderli, o dire: “Ma signora, è morto anni fa”».

 

È vero che litigò con Gassman per questioni di fede?
«Vittorio era un mio carissimo amico, oltre che una persona di una cultura e intelligenza incredibili. Abbiamo recitato insieme in “I picari” e “Lo zio indegno”, l’ho accompagnato nel periodo della sua grande depressione: stavamo sempre insieme, ricordo che doveva mangiare la cioccolata per tirarsi su e andavamo in giro per Milano dividendoci le sue tavolette. Non abbiamo mai litigato, sulla fede abbiamo solo discusso, perché o succede o non succede. A lui non è successa. Diceva: “A volte vorrei anche solo un lumicino di questa luce, ma non ne vedo”. Gli volevo un gran bene, ho pianto molto quando è morto, abbiamo passato periodi splendidi insieme. In Spagna eravamo nello stesso albergo di Monicelli, lui mi aspettava fuori e mi chiedeva dove andassimo a mangiare, a tavola poi ci riempiva di racconti unici, favolosi, come quando conobbe Charlie Chaplin. Era un piacere stare con lui, mi ha insegnato molto. Alcuni monologhi shakesperiani li faccio ancora pensando a lui».

 

Le manca Lina Wertmuller?
«A Lina devo tutto, senza di lei oggi non sarei qui. È stata la mia maestra, da lei ho imparato ogni cosa. È stata un genio non valutato abbastanza. Era una donna impulsiva, irrequieta, speciale: lavorare con lei era come lavorare con dieci registi uomini. Parliamo di artisti veri».

 

Ci sono oggi “artisti veri”?
«Ci sono attori e registi di spessore, mi vengono in mente Giuseppe Tornatore e tanti altri, ma i tempi sono diversi, anche quelli di lavorazione. Mi sono appena rivisto “La caduta degli dei” di Visconti, riusciremmo oggi a realizzare un capolavoro così?».

 

È ancora convinto che gli attori italiani siano i più bravi al mondo?
«Lo dissi anni fa e fui attaccato, eppure tutti i più grandi attori del mondo hanno origini italiane, da Leonardo di Caprio ad Al Pacino, fino a star come Frank Sinatra. E che dire di Eduardo De Filippo? Non abbiamo nulla da invidiare ad altri».

 

A breve riceverà la stella sulla Walk of Fame di Hollywood. Che cosa prova?
«Sono uno dei pochi che ha lavorato tanto a Hollywood, la stella è meglio di un Oscar - a cui pure fui candidato nel ’77 per “Pasqualino Settebellezze” – perché significa “essere una stella per sempre”. Mi piace».

 

Nella sua autobiografia “Sono ancora un bambino (ma nessuno può sgridarmi)” scrive: «Noi attori abbiamo il dovere di ricordare a tutti che c’è un’alternativa alla realtà, alla logica, all’omologazione e all’istinto».
«Siamo nati per continuare a raccontare le favole ai grandi. Quando siamo cresciuti e non abbiamo più mamma e papà che ce le narrano prima di dormire ci pensano gli attori».

 

Non viviamo tempi di favole, somigliano più a incubi già visti…
«Non me lo dica, io sono nato sotto la guerra, mi ricordo carretti con bambini maciullati passare sotto i miei occhi, stukas tedeschi mitragliare una stradina di campagna. Ero lì su un camioncino di patate con mia madre e ci salvammo buttandoci tra i rovi di more. La guerra è la cosa più terribile che possa accadere. È uno spettro che ritorna. Inviando le armi si può ottenere la pace? Bisognerebbe risolvere in maniera diplomatica, ma fare la guerra no. Confido che le cose si sistemino».

 

È un incallito ottimista o sbaglio?
«Bisogna esserlo. Lo sono stati tutti i pensatori in fondo, Leopardi stesso non era pessimista, ha parlato di infinito e del naufragar “dolce” in questo mare. Dopo che cosa c’è? La morte, la fede, l’infinito? Non lo so, ma ci voglio credere. Sarà poi che ho vissuto molto a Napoli, c’è una parola che ne racchiude la filosofia e torna utile in questi tempi bui: “Futtetenne”».