Rialzi dei tassi eccessivi e in ritardo. Scelte politiche incerte, comunicazione poco chiara. Così Bce, Fed e Bank of England irritano i mercati e si attirano le critiche degli operatori e degli esperti

I giapponesi hanno suscitato un’ondata di ammirazione ai Mondiali di calcio per i modi eleganti, gli inchini al pubblico, il ritorno festoso pur da sconfitti. Eppure neanche la cortesia nipponica ha fermato un’ondata di polemiche il 21 dicembre di fronte al più inaspettato degli oltraggi: la Banca del Giappone ha alzato i tassi d’interesse (a Tokyo si chiama «allargamento della banda d’oscillazione») dopo le reiterate assicurazioni del governatore Haruhiko Kuroda che la politica sarebbe rimasta espansionista a lungo. Invece ecco il rialzo: da 0,25 a 0,50, proporzionale con l’inflazione che è al 3,6%. Commenti irritati e sconcerto degli operatori, e Borsa a picco del 2,6% con effetto-domino su tutte le piazze mondiali.

Benvenuta Tokyo nel “club dei falchi”, dove a nessuna banca centrale vengono risparmiate accuse. In Italia, ricordiamo le espressioni di sconcerto quando - il 15 dicembre - la Bce ha alzato i tassi dal 2 al 2,5%: è una sorpresa e una vergogna, ha tuonato la maggioranza guidata dai ministri Crosetto e Tajani, con tanto di inopportune e maldestre accuse agli istituti centrali di essere “braccio delle banche private”, contro le quali è dovuto intervenire il governatore Ignazio Visco a ripristinare la verità di un’istituzione pubblica che ha come solo riferimento l’interesse collettivo. Oltretutto non è chiaro cosa ci fosse da sorprendersi dei rialzi con l’inflazione che viaggia al 10% nell’eurozona e all’11,8% in Italia. «Semmai c’era da preoccuparsi», commenta Brunello Rosa, docente alla London School of Economics, «per il secondo annuncio fatto dalla presidente della Bce, Christine Lagarde: l’inizio (fissato per marzo) del “quantitative tightening”. È l’opposto del “quantitative easing”: se quest’ultimo aveva aiutato l’Italia perché una bella fetta dei titoli emessi (il 25% del monte-debiti alla conta finale, ndr) era acquistata da Francoforte, ora inizia l’operazione inversa.

La Bce smette di acquistare i Btp, e avvia il graduale smobilizzo per quelli che si ritrova “in pancia”. Con un doppio svantaggio per noi: l’aumento dell’offerta di titoli con un inevitabile calo del valore (e rialzo dei tassi a carico del bilancio italiano) e la necessità per i Paesi indebitati di collocare per intero sul mercato le emissioni visto che è finita l’era in cui la Bce ne ricomprava in quantità. E l’Italia emetterà 450 miliardi di titoli nel 2023». Destino beffardo quello delle banche centrali: «Dopo essere state benemerite dell’umanità per aver affiancato con generosità i governi contro la pandemia, e prima ancora nel post-crisi finanziaria del 2008-2010, sono passate dalla parte dei cattivi», conclude Rosa.

Ma le critiche, argomenta l’economista Mario Baldassarri, presidente del Centro studi economia reale e dell’Istituto Adriano Olivetti di Ancona, sono ancora altre: «È grave il ritardo con cui la Bce, come la Fed, si è mossa rispetto all’inflazione, quando si sarebbe dovuta vedere la situazione con lungimiranza di almeno un anno. E ora insiste nel preannunciare futuri aumenti dei tassi senza considerare che l’inflazione sta calando. Quanto alla vendita o meno dei titoli in portafoglio, è un pasticcio di comunicazione che ha intorbidito il dibattito».

Né dalle comunicazioni del giorno stesso né da quelle successive si è capito se la Bce comincerà a vendere i titoli che ha in “pancia”, operazione delicatissima e da condurre con oculatezza massima, o semplicemente non ne acquisterà di nuovi. «La risposta giusta è la seconda», dice Lorenzo Codogno, per anni capo economista del Tesoro e ora titolare di un think-tank a Londra, «perché vendere i titoli, come già ha cominciato a fare la Bank of England, sarebbe estremamente dirompente e non penso che ci arriveremo prima di due anni».

 

Concorda Lorenzo Bini Smaghi, che del board della Fed è stato membro fino al 2011: «Per ora si limiterà a non ricomprare i titoli». Il problema vero è che Lagarde sarà un grande avvocato ma non ha la calibratura millimetrica del predecessore, Mario Draghi. E infatti i mercati oscillano paurosamente a ogni sua dichiarazione come se gettasse benzina sul fuoco. Ulteriore pasticcio: l’invito all’Italia ad aderire al Mes, competenza invece dei governi e della commissione.

A riprova del difficile momento, la Bce è nel mirino perfino dei think-tank tedeschi più ortodossi, che l’hanno criticata per tutti gli anni di politica espansionistica: «Permangono diverse zone grigie nel mandato della Bce, che amplia il raggio d’azione a dismisura», accusa Julian Marx, analista di Flossbach von Storch, un grosso gestore di fondi di Colonia.

«L’ultima trovata è il Transmission Protection Instrument, logica continuazione della dinamica del Qe. Il programma ha lo scopo di prevenire un eccessivo allargamento degli spread. Se la Bce giunge alla conclusione (soggettiva) che la divergenza è eccessiva, può acquistare a propria discrezione i titoli di Stato di qualsiasi Paese senza neanche più alcuna limitazione precostituita». Beninteso, tutti gli economisti, italiani e nordici, sono d’accordo: non bisogna intendere le polemiche come alibi a motivo di campagne sovraniste.

«L’Italia», riprende Baldassarri, «deve abbassare il debito, da questo non si scampa: i modi ci sono, dall’intervento sui sussidi alla riforma fiscale, l’importante è attuarli senza guardare alle pretese di lobby e categorie di sorta».

Se la Bce è al centro di roventi polemiche, altrettanto politicamente sensibili sono le controversie che circondano l’americana Federal Reserve, che ha almeno il vantaggio di avere come controparte un solo governo anziché i 19 dell’area euro (20 dal primo gennaio con l’ingresso della Croazia).

Il presidente Jerome Powell è sotto accusa fin dalla sua riconferma da parte di Biden nel novembre 2021 (è un repubblicano convinto nominato la prima volta Trump nel 2018). Larry Summers, ministro del Tesoro con Clinton, si è scagliato subito contro il capo della Fed: è riapparsa l’inflazione, ammoniva dalle colonne del Washington Post, cosa aspetta Powell a intervenire? Forse vuole dimostrare la sua gratitudine a Biden per la riconferma e non guastare la ripresa americana? Fra accuse al veleno e spiegazioni fallaci che l’inflazione era “transitoria” si è arrivati alla primavera di quest’anno, quando la svalutazione negli Usa era già arrivata all’8,5% e Powell ha finalmente deciso di agire.

Il primo timido rialzo dei tassi (da zero a +0,25%) è del 16 marzo, dopodiché è partita la rincorsa che ha portato a metà dicembre i tassi al 4,5%, e non è ancora finita. Ma la “forward guidance” anacronistica, l’anticipo degli aumenti dei tassi prevedendo un’inflazione che a questo punto forse non ci sarà, è al centro delle accuse contro la Fed (identiche a quelle contro la Bce). La stessa necessità dei rialzi è controversa: Joseph Stiglitz, premio Nobel e guru della Columbia University, è alla testa del movimento che sostiene l’inutilità, anzi la dannosità, dei rialzi per combattere l’inflazione. «Così si affossa l’economia in una recessione da cui poi sarà difficile uscire», sostiene in un documento del Roosevelt Institute che presiede.

«L’inflazione si cura da sé perché provoca un rallentamento delle spese e degli investimenti, in sostanza dell’attività economica, che provoca il raffreddamento dei prezzi», scrive Stiglitz. I fatti in parte gli danno ragione se si guarda all’andamento calante dei mercati in quest’anno.

Dal primo gennaio al 21 dicembre 2022 il Dow Jones ha perso il 10% (più o meno quanto il Ftse Mib di Milano), mentre molto peggio sono andati il Nasdaq, giù del 35% (da 14.935 a 10.476) e anche il mercato obbligazionario che nella media mondiale ha perso circa il 25% del valore.

Ma il palcoscenico delle polemiche più plateali contro le banche centrali spetta alla Bank of England, la “Old Lady of Threadneedle Street”, dal nome della strada della City dove ha sede dal 27 luglio 1694. «La BoE è stata coinvolta quest’estate», riprende Rosa che prima della Lse era un funzionario della stessa banca centrale, «nella caduta del governo di Liz Truss, quando fu costretta dalla rovinosa manovra di tagli alle tasse non finanziati (oltre 60 miliardi di sterline non coperte, ndr) a ricominciare a comprare i titoli di Stato inglesi, i gloriosi gilts, per calmare un mercato in rivolta».

Il rifiuto di continuare con questi acquisti portò alle dimissioni del ministro del Tesoro Kwasi Kwarteng, e poi della stessa premier. «Dopo l’arrivo del nuovo governo, con Rishi Sunak primo ministro e Jeremy Hunt al Tesoro, la Bank of England ha ripreso la sua politica di rialzo dei tassi e di riduzione del bilancio, attirandosi immancabilmente le critiche di aver inasprito la recessione già in atto nel Regno Unito».

Insomma, della serie “come fai sbagli”. Forse ha ragione il vecchio Olivier Blanchard, prestigioso economista mondiale già chief economist del Fondo Monetario, quando propone in uno studio per il Peterson Institute di alzare il tasso di obiettivo, verso il quale tutte le banche centrali dovrebbero tendere, dal 2 al 3%: «Così si avrebbero più margini di manovra quando in qualche futura crisi ci sarà bisogno di abbassare i tassi, senza sbattere subito contro lo “zero lower bound”». Ma di sicuro qualche modo per polemizzare contro le banche centrali si troverebbe sempre.