I grandi movimenti oggi sono ridotti a strumenti in mano al capo di turno, senza legami con la società. Rinnovarli è necessario per il bene della democrazia

Nel pieno di una campagna elettorale di transizione tanto tesa quanto povera di argomenti forti, aiutano le prese di posizione quasi contemporanee di due intellettuali di scuola diversa molto attenti all’evoluzione del sistema istituzionale, che meritano di non passare inosservate. La prima è di Stefano Passigli, scienziato della politica e più volte parlamentare del Pri e dell’Ulivo, autore di un saggio dal titolo inequivocabile: “Elogio della Prima Repubblica” (La Nave di Teseo); l’altra viene da un articolo puntuto e documentato di Sabino Cassese, amministrativista, ex ministro e giudice della Corte costituzionale, dal titolo altrettanto esplicito: “C’erano una volta i partiti” (“Corriere della Sera”, 22-8-22).

 

Intendiamoci, i due contributi non si segnalano per vane nostalgie, piuttosto sembrano scritti per guardare avanti, in positivo, nel senso di tentare di recuperare per domani ciò che di buono c’era ieri e che è stato cancellato da ventate di demagogia e populismo; e pure per ovviare agli errori commessi, e attrezzarsi a contrastare i rischi che potrebbero arrivare dopo il 25 settembre. Insomma parlano di attualità.

 

Secondo Passigli i trent’anni della Prima Repubblica, chiusa con l’assassinio di Aldo Moro che bloccò nel sangue il processo politico che doveva portare all’alternanza Pci-Dc, si è distinta soprattutto per aver avviato riforme importanti pur tenendo sotto controllo il debito (esploderà solo negli anni Ottanta) e favorito la crescita economica.

 

Tutto questo anche grazie a tre scelte strategiche: in economia l’accettazione del regime di libero scambio dopo anni di autarchia; in politica estera l’adesione al Patto Atlantico e all’Europa unita, entrambe d’intesa con il Pci che non ha mai tradito il suo sì né mai tramato contro; infine la scelta del sistema elettorale proporzionale. Tre pilastri che oggi traballano: la destra in pole position ripropone protezionismo e isolazionismo; strizza l’occhio a Putin e si identifica con l’Europa di Orban e dei quattro di Visegrad; ama il maggioritario e, dopo aver accusato Draghi di eccesso di potere, sogna un presidente eletto dal popolo, una qualche forma di presidenzialismo che, nota Passigli, con forze politiche divise sulle scelte di fondo, a cominciare dalla politica estera e dalla giustizia, porterebbe solo confusione e rischi.

 

Il “j’accuse” di Cassese è invece tutto dedicato ai partiti ridotti ormai a piccoli gruppi di potere. L’analisi è impietosa e in qualche modo integra le tesi di Passigli perché in fondo la crisi dei partiti è figlia (se non concausa) del declino della Prima Repubblica: dal dopoguerra gli iscritti si sono ridotti di dieci volte, diminuiscono militanti e votanti; non si tengono quasi più congressi di partito, momenti di confronto di idee e di uomini su programmi e strategie oggi calati invece dall’alto; l’assenza di organi di controllo e la funzione burocratica di direzioni e comitati non garantiscono una vera democrazia interna; i gruppi dirigenti sono oligarchie che, senza alcun confronto reale con la base e con l’alibi di una legge elettorale cervellotica, decidono in splendida solitudine i candidati, blindano i big presentandoli in più collegi, e mettono in lista “esterni” di richiamo per supplire alle carenze di iscritti e militanti o per giochi di potere; al web, infine, si ricorre non per favorire partecipazione e informazione, ma per esaltare questo o quel leaderino. È la politica dei pochi che occupano cariche e istituzioni, generano sfiducia, allontanano i cittadini. 

 

E invece partiti forti e partecipati, come sono stati per anni, sono garanzia del buon funzionamento della democrazia. Ora che il populismo si è attenuato, e cerca in qualche modo di istituzionalizzarsi e farsi governo, è necessario cominciare a riflettere sui partiti senza pregiudizi di sorta. Convincendosi che essi non sono la sentina di tutti i vizi e che partiti più democratici rendono più democratici la politica e lo Stato. E dunque sono il primo argine a degenerazioni, deviazioni, autoritarismi. Che sono sempre in agguato.