Padre Alvarez, sacerdote a Ventimiglia, ha fondato una onlus che ha sottratto migliaia di ragazzi alla schiavitù delle coltivazioni di coca nel suo paese

«Sa cosa cantano i contadini che lavorano nei campi di coca? “Il problema non è nostro: viene da lontano. Noi la coltiviamo, ma all’estero è dove va a finire. Sono i gringos che se la mettono nel cervello, dai più poveri alla più alta società. Noi, lavoratori a giornata, raccogliendo le foglie di coca sopravviviamo”. Sono nato nel Catatumbo, una regione a nord-est della Colombia al confine con il Venezuela, e a 21 anni ho avuto la fortuna di trasferirmi in Italia e di studiare: è stata la mia salvezza, perché invece di diventare uno schiavo dei narcos, ora predico la pace e offro a mia volta un’alternativa ai bambini».

 

Rito Julio Alvarez è stato ordinato sacerdote nel 2000 nella diocesi di Ventimiglia-Sanremo. Ci era arrivato nel 1993, grazie a una borsa di studio, ma già a 8 anni i genitori avevano pagato un maestro per insegnargli a leggere e scrivere nel villaggio controllato dai guerriglieri in cui abitavano. La sua famiglia viveva della coltivazione del caffè e questo avrebbe forse continuato a fare anche lui, se, verso la fine degli anni Ottanta, non fossero comparse le piantagioni di coca. Erano state sostituite alle colture locali con la promessa di nuove e migliori opportunità di vita per tutti e la popolazione si illuse che sarebbe stato davvero così. E invece, gli unici ad arricchirsi furono i gruppi armati che ne controllavano produzione e traffico. Finché, nel 1999, l’arrivo dei paramilitari inviati dal governo come strumento di controinsurrezione, per difendere i diritti dei contadini benestanti, non impresse un’ulteriore svolta, peggiore della prima. Perché fu da quel momento, con l’imporsi delle Autodefensas unidad de Colombia (Auc), di estrema destra, sui guerriglieri, raccolti chi nelle Fuerzas armadas revolucionaria de Colombia (Farc) e chi nell’Ejercito de liberacion nacional (Eln), tutti di estrema sinistra, che alle sopraffazioni si aggiunse l’uso sistematico della violenza e che la regione piombò nell’incubo dei massacri.

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Basterebbe ascoltare i narcocorrido, le ballate della droga, per cogliere i sentimenti di una popolazione che, messa alle strette dalla miseria e dalla paura, da decenni ormai fatica a liberarsi dal giogo degli interessi criminali internazionali. Don Rito ci è riuscito e ha convertito l’atrocità delle esperienze vissute sulla propria pelle in energia positiva.

 

Lo ha fatto nel 2007, inventandosi una fondazione che potesse offrire ai bambini le stesse occasioni che ebbe lui. “Oasis de Amor y Paz”, così si chiama l’organizzazione non governativa che ha istituito ad Abrego, nel dipartimento di Norte de Santander, rappresenta non soltanto un tetto, ma anche e soprattutto una prospettiva di istruzione ed emancipazione per centinaia di giovani altrimenti condannati a crescere nei campi, raccogliendo foglie di coca, o a impugnare un’arma al servizio delle organizzazioni che si contendono il controllo del territorio e, in particolare, della frontiera. «La nostra non è una mensa per bambini poveri, ma un luogo in cui coltivare i sogni e impegnarsi a realizzarli», spiega don Rito, che nella sua amata terra torna almeno due volte l’anno. «È questo che dovrebbe sapere chi consuma droga negli Stati Uniti e in Europa: dietro ogni dose, c’è una creatura mandata nelle piantagioni per settimane in cambio di un pezzo di pane». In Italia, sono state le donazioni raccolte dall’associazione “Oasi angeli di pace Odv” di Sanremo a contribuire alla costruzione di diverse case famiglia e al finanziamento degli studi, anche universitari, dei ragazzi.

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«Potevo finire male anch’io e invece sono stato aiutato. Ma quando nel 2000 rientrai in Colombia per un mese - ricorda don Rito - non feci altro che celebrare i funerali di parenti e amici. Fu una strage. In una regione che conta circa 300 mila abitanti, si registrarono più di 10 mila morti. Tutte persone uccise dai paramilitari con rappresaglie ed esecuzioni sommarie: chi con il machete o la motosega, chi trascinato dai cavalli o gettato in pasto ai coccodrilli. Anche mio cugino Michelangelo fu giustiziato - continua -. Gli spararono tre colpi di pistola alla testa davanti a un’assemblea, perché si era rifiutato di pagare una mensilità. A quel punto, settimo di undici figli e con la famiglia sfollata nel villaggio dei nonni, mi trovai a un bivio. Ma alla fine, tra la guerra e la pace, scelsi appunto la via della riconciliazione».

 

Una scommessa vinta, a giudicare dalle storie dei piccoli, anche orfani, strappati a quelle violenze. «Erano bambini arrabbiati – spiega –. Ricordo la risposta di Wilfran, quando gli chiesi cosa volesse fare da grande: “vendicare l’omicidio di mio padre”, disse tutto d’un fiato. Aveva appena 10 anni e pensai che fosse nostro dovere rimuovere quel pensiero. Il risultato è che ora va in giro a testimoniare messaggi di pace». Tra i tanti esempi, anche quello di Jorge. «È parente di un noto narcotrafficante e avrebbe potuto diventarlo a sua volta - afferma il sacerdote -. Ma ha vissuto con noi, si è laureato in Ingegneria e si è sposato. E di recente gli hanno anche proposto di candidarsi a sindaco». Non fu così per Fabian, amico d’infanzia di don Rito, che sognava di diventare un operatore turistico e finì invece ammazzato e poi sbranato da cani e avvoltoi, dopo essersi lasciato convincere a partire con i narcos.

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Quella del Catatumbo, che nella lingua delle comunità indigene significa “territorio dei lampi e dei tuoni”, per la frequenza delle scariche elettriche che lo attraversano, è una storia legata a doppio filo anche con l’Italia. «Ci sono almeno due nomi da tenere a mente - avverte don Rito -. Il primo è quello dell’ex presidente colombiano Álvaro Uribe, che appoggiò i gruppi paramilitari responsabili dei più sanguinosi eccidi anche tra i civili. Il secondo è quello di Salvatore Mancuso Gòmez, nato in Colombia da padre italiano emigrato da Sapri, in Campania, e messo a capo di quelle milizie».

 

Soprannominato “El Mono”, la scimmia, Mancuso è stato estradato negli Stati Uniti nel 2008 con una condanna a 15 anni e 10 mesi per narcotraffico internazionale. Sarebbe stato lui, saldando gli interessi incrociati dei cartelli e della politica, a ordinare l’uccisione di almeno 837 persone in 136 mattanze. E sempre lui, d’accordo con la ’ndrangheta, a fare arrivare ingenti carichi di droga nel porto di Gioia Tauro. Dopo l’arresto, era stato suo cugino Domenico Antonio Mancuso a raccoglierne l’eredità, macchiandosi di ogni genere di crimini. Anche con lui il filo porta all’Italia: ricercato con ordine di cattura internazionale, Domenico scelse di trasferirsi a Imperia, dove, dopo due anni vissuti senza neppure bisogno di cambiare identità, nel 2014 è finito a sua volta in manette.

 

Ultimamente le leggi sono migliorate - osserva don Rito, passando in rassegna i passi in avanti compiuti dal governo di Bogotà per smobilitare le formazioni paramilitari e per firmare accordi di pace con i guerriglieri -, ma alla base di tutto c’era e resta la piaga della corruzione. Lo Stato, nella nostra regione, è sempre stato assente e questo ha permesso alla cocaina di diffondersi. Oggi, con oltre 40 mila ettari di campi coltivati, la produzione totale annua supera le 500 tonnellate. Ma attenzione: i signori dei cartelli non vivono in Colombia. Lì, sono tutti vittime del sistema». Lo raccontano bene le due serie di “Narcotica”, che il giornalista Valerio Cataldi ha realizzato qualche anno fa per la Rai proprio con la collaborazione di don Rito, e alcune delle inchieste sui traffici di droga con la Calabria coordinate dal procuratore Nicola Gratteri.

 

Esempio vivente di come una via d’uscita esista sempre, nel 2020 don Rito si è inventato la scuola del caffè. «Ho voluto offrire un’alternativa anche economica ai ragazzi e alle loro famiglie», spiega. È nato così l’“Oasis Cafè Colombia. Donde la coca ya non crece”, un progetto che, attraverso l’Oasis for peace di Monaco, aiuta i campesinos a riconvertire, laddove il clima lo consenta, la produzione della coca in quella del caffè. I chicchi vengono poi importati in una torrefazione di Ventimiglia, tostati e distribuiti in Italia e nel resto d’Europa. I proventi, va da sé, vengono reinvestiti in opere di bene per il Catatumbo. «La mia regione ha sofferto tanto», continua, ricordando come prima dell’avvento dei guerriglieri, a sterminare le comunità indigene dei Motilones Barì fossero stati i conquistadores e a distruggerne il territorio, radendo al suolo le foreste e inquinando le acque, fossero state le multinazionali petrolifere degli Usa sostenute dal governo colombiano.

 

«Credo in una Chiesa aperta, con i preti che vanno ad ascoltare i problemi della gente, anche quelli più scomodi, e che rientrano in parrocchia con la puzza delle pecore addosso - dice don Rito -. Certo, sono stato minacciato di morte, anche qui in Italia quando nel 2016 davo accoglienza ai migranti. Ma non ho paura, perché la mia opera non è contro qualcuno, bensì a favore dei più deboli. Di quei bambini che, per esempio, in una lettera mi scrissero di essere della Camorra, perché questo era il nome dato al villaggio in cui vivevano: non ne conoscevano neppure il significato». La sua missione ha salvato già un migliaio di destini, ma don Rito, che ora ha 50 anni, sa bene che la strada è ancora lunga. «Vorrei lanciare una sfida allo Stato - dice -: a me il 5 per cento dei soldi spesi per elicotteri e armi. Li spenderò in matite e quaderni. E tra dieci anni tireremo le somme, per vedere se abbiano reso più dieci mila soldati o mille insegnanti».