Tra i ragazzi delle periferie romane. Il lavoro che non c’è,la scuola che non aiuta. Molti dicono che andranno a votare,ma non sanno ancora per chi

Verso le sei del pomeriggio di un giorno qualsiasi, le fermate della Metro C a piazza dei Mirti e a piazza delle Gardenie scompaiono dietro nugoli di ragazze e ragazzi. Doppio taglio, borsello a tracolla di Louis Vuitton, jeans strappati, t-shirt di marca, tute costosissime, felpe da collezionisti – alcuni acquistano capi d’abbigliamento in produzione limitata per poi rivenderli on line a prezzo maggiorato - unghie lunghissime e decorate, tatuaggi. La nail art e i laboratori di tattooer professionisti sono tra i nuovi mestieri più ambiti e diffusi tra la fascia giovane di chi vive in questo quadrante e lascia gli studi dopo l’obbligo scolastico. D’estate, la linea automatizzata - diretta discendente della “lilla” di Milano, leggera e completamente driverless - che collega San Giovanni all’estrema periferia est di Roma e che arriva fino a Montecompatri, passa ogni venti minuti. Ora che la scuola è ricominciata si è deciso di potenziare il servizio e di aumentarne la frequenza a 9 minuti, anche se gli studenti che prendono i mezzi pubblici in periferia sono pochi: i ragazzi preferiscono lo scooter o la macchina. Mirti e Gardenie sono tra i punti di ritrovo più frequentati dalla cosiddetta generazione Z che vive nel quadrante est di Roma.

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Nonostante i social azzerino le distanze tra le persone, soprattutto tra gli adolescenti, le periferie e il Centro di Roma sono più lontane di quanto si creda. Anni fa, poco prima delle vacanze di Natale, uno dei miei studenti, che frequentava un istituto tecnico informatico e viveva a Case Rosse, mi disse: «Piazza Navona è bellissima, ci sono stato una volta sola, da bambino. Mi ci portò mio padre, è ancora così?».

Il più importante privilegio del mestiere dell’insegnante è avere l’opportunità di vivere tra i ragazzi, poterli ascoltare, vederli crescere. Studiare non sembra essere una delle loro priorità. A scuola ci si ri-conosce, ci si identifica in fretta: l’abbigliamento e il linguaggio sono due punti cardine della percezione che i giovani hanno di se stessi e degli altri. Tra loro si chiamano “fra’” (fratello: termine esclusivamente declinabile al maschile, non esiste il corrispettivo “sore’”), “cuore”, vi’ (cioè “vita”, il cui sottotesto è: “mi sei caro come la vita”): per chi, come me, insegna, imparare in fretta la lingua e la prossemica dei ragazzi è fondamentale, quasi quanto imparare al più presto i loro nomi. “Rispetto” è una delle parole più ricorrenti. Tuttavia, spesso, il rispetto deve essere prima ottenuto e, solo in seguito, concesso. Gli insegnanti non rappresentano l’eccezione a questa regola.

Del resto, uno dei temi centrali della questione scolastica è - cito testualmente Antonello Giannelli, Presidente dell’Associazione Nazionale Presidi - «avvicinare la scuola alle periferie». Se agli insegnanti il concetto di presidio - di legalità, di cultura, di istruzione, di formazione, di educazione (intesa nell’accezione etimologica del termine) - è ben chiaro, agli studenti il vero senso del termine sfugge. In un quadrante come quello della periferia est di Roma, la scuola rappresenta, per certi versi, un’imposizione alla quale non ci si può sottrarre, una sorta di prolungamento della casa che ciascuno arreda come meglio gli conviene.

Quasi mai gli studenti considerano la scuola una soluzione ai problemi presenti e futuri. Sono poche le scuole di periferia in cui si fa politica in modo attivo. Stefano F. ha frequentato il Liceo delle Scienze Umane, vive a Centocelle, e ha le idee chiarissime: «La scuola dovrebbe insegnarti a camminare, invece che mostrarti il sentiero che devi percorrere. Dovrebbe insegnarti ad avere un’idea, e non a sposare un’ideologia. La politica dovrebbe rappresentare la cosa pubblica, il problema è che ormai non è più così». Stefano ha deciso di proseguire gli studi, ha scelto Lingue e letterature straniere, studia francese e russo. «Il nostro potere decisionale, quello dei cittadini intendo, è praticamente nullo. Io non mi riconosco affatto in questa politica, certo, andrò a votare. Anzi, mi presenterò alle urne. L’impossibilità di partecipare in modo attivo, la certezza di non essere ascoltato, di non poter fare la differenza, ha creato una distanza abissale tra me e la politica. Per esempio, il Pd: non lo conosco, non mi arriva. È questo loro senso di estraneità al mio territorio che mi respinge».

 

La periferia Est di Roma comprende quartieri come Tiburtino, San Basilio, Ponte Mammolo, Prenestino, Collatino e - alle estreme propaggini - il cosiddetto municipio delle Torri (Tor Bella Monaca, Torre Angela, Torre Maura, Torre Spaccata, Torre Gaia, tra le altre zone). Le scuole presenti sul territorio sono numerose: Kant, Croce-Aleramo, Von Neumann, Giorgi-Woolf, Lattanzio, Benedetto da Norcia, Enzo Rossi, Amerigo Vespucci, per citarne solo alcune. Licei classici, scientifici, licei delle scienze umane, linguistici, tecnici e professionali. Migliaia di ragazze e ragazzi, migliaia di nuovi elettori.

L’unico, solidissimo fil rouge tra loro e gli studenti del centro di Roma - tradizionalmente più impegnati nella politica attiva - sembra essere il consumo di droga: leggera, pesante, in qualsiasi forma, la maggior parte di loro rischia di sviluppare dipendenze e di ritrovarsi, conseguentemente, nei gangli dello spaccio.

 

Flavia P., con un diploma di operatrice dei servizi socio-sanitari, alla vigilia delle elezioni, ragiona sulla sua esperienza scolastica proprio in relazione alle scelte politiche: «Purtroppo la scuola non mi ha dato nessuno strumento per formarmi una coscienza politica, e non capisco perché, dato che passiamo la gran parte del nostro tempo in una classe. Sicuramente dare la giusta dignità e rilevanza all’istituzione scolastica avrebbe un forte impatto sulla società». 

Flavia vive a Pietralata, cerca un lavoro stabile. La sua è una famiglia monoreddito, dove l’unica ad avere uno stipendio fisso è la madre. «Mi sento molto lontana dalla politica, perché non vedo alcun futuro per me. La cosa più bella a cui andare incontro mi sembra il bacio di Giuda. Perché un giovane dovrebbe appassionarsi alla politica? Il mio politico ideale è una persona coerente, che voglia battersi per i diritti della collettività, che non lasci indietro chi vive ai margini, chi è povero e chi è abbandonato. Attualmente non vedo nessuno in grado di identificarsi in questo ideale e un certo tipo di sinistra, che dovrebbe farsi portavoce dei nostri diritti, non si vede».

In classe ci sono due livelli di comunicazione: quella ufficiale, tra professori e studenti, e quella privata, che circola sottovoce solo tra i ragazzi e fuori dalla scuola. Al di là delle Unità Didattiche di Educazione Civica e dei progetti per l’inclusione, tra i giovani studenti delle periferie si respira spesso un malessere diffuso nei confronti degli “zingari” e degli extracomunitari. Non è raro cogliere affermazioni abusate e false come «ci rubano il lavoro», «ci rubano le case», «violentano le nostre donne», pronunciate in tono apodittico. La perfetta legittimazione di un razzismo la cui origine è confusa, una discriminazione rivolta a destinatari sconosciuti, dato che in ogni gruppo - l’equivalente delle cosiddette comitive, per chi, come me, è stata adolescente negli anni Ottanta - è presente un gran numero di immigrati di seconda generazione, italiani a tutti gli effetti.

Francesca R. abita alle spalle di Largo Preneste, un diploma di maturità classica, ora ha un contratto a tempo indeterminato in un noto locale dell’Eur. Abita con sua madre: anche la sua era una famiglia monoreddito finché Francesca non ha trovato lavoro. «Non credo che la politica sia utile ai giovani. Il punto è che non è utile a nessuno, ora come ora, per via del modo in cui viene fatta. Non c’è lavoro, e non solo per i giovani. Probabilmente è questo uno dei motivi per cui tra noi non parliamo di politica, non è argomento di conversazione». 

Francesca nutre poche aspettative da queste elezioni: «Non so bene cosa sperare. Forse spero in un cambiamento, non solo fiscale o infrastrutturale, che pure sono importanti. Quello che vorrei io è un cambiamento sociale, vorrei più diritti civili, vorrei la legalizzazione della cannabis, vorrei più politiche scolastiche. Per questo andrò a votare, anche se non è facile scegliere. Bisogna conoscere il passato della politica per votare in modo consapevole, e sinceramente per me è difficile sentirmi rappresentata da uno schieramento, anche da chi si dichiara portatore dei valori della sinistra».

Il lavoro è stato sempre il suo obiettivo primario, primum vivere, deinde philosophari: «Ho bisogno di mantenermi, e non potevo permettermi di stare ancora troppi anni sui libri. I politici che vengono in periferia, a parlare con noi, ad ascoltarci? Non credo di averne visti, qui facciamo tutto da soli».

Tra una settimana si vota. Gli insegnanti sono tornati in cattedra con nelle orecchie il consueto «Sarà un anno scolastico più complicato dei precedenti».

Settembre ci riporta sempre con i piedi per terra: le complicazioni e il precariato sono strutturali alla scuola. Come possono, questi ragazzi, coltivare l’aspirazione alla stabilità quando chi li dovrebbe formare è precario a sua volta? Come si fa a dare un senso di continuità didattica ed emotiva a chi ha bisogno di punti di riferimento quotidiani? È necessaria una soluzione rapida, perché le scuole di periferia tornino a essere luoghi identitari - come accade a molti licei del Centro - sperando che i confini degli studenti si estendano, che i ragazzi imparino una nuova lingua. Augurandoci che la forza centripeta che è il motore di certa sinistra inverta il movimento e torni a occupare lo spazio che gli compete e a incarnare agli occhi dei giovani elettori di periferia “la politica ideale”.