False accuse, arresti pretestuosi, fonti bruciate, perquisizioni e hater scatenati ad arte. La vendetta della politica contro i cronisti più impegnati nella lotta alla corruzione. E nel mirino finiscono anche i magistrati

Era il 28 giugno quando in Guatemala ottantuno giornalisti e ventidue realtà tra testate indipendenti e associazioni diffusero un comunicato per chiedere al governo e alle autorità giudiziarie di fermare «la censura, la violenza e la criminalizzazione che limitano la libertà di espressione». Il testo terminava con queste tre parole: «No nos callarán», «Non ci faranno tacere».

La denuncia era scattata perché nelle due settimane precedenti cinque giornalisti avevano subito aggressioni di vario genere: un arresto arbitrario, un tentato omicidio, la distruzione di macchine fotografiche e telecamere da parte della polizia, l’apertura di un’indagine legata ai contenuti di un’intervista. I firmatari non potevano prevedere, anche se in pochi l’avrebbero escluso, che un mese più tardi «No nos callarán» sarebbe diventato uno slogan virale per esprimere dissenso contro l’arresto di uno dei giornalisti più conosciuti nel Paese per i suoi articoli sulla corruzione: José Rubén Zamora Marroquín, direttore de elPeriódico, quotidiano nato nel 1996, anno in cui il Guatemala si è lasciato alle spalle 36 anni di una guerra civile che oltre a duecentomila morti e quarantamila desaparecidos aveva reso difficile anche il lavoro dei giornalisti, con 340 reporter assassinati e 126 scomparsi.

Zamora è stato arrestato il 29 luglio, dopo perquisizioni in casa e in redazione durate per ore, con l’accusa di vari reati, tra cui riciclaggio di denaro, e oggi è in carcere in custodia cautelare. Con lui è stata arrestata anche Samari Carolina Gómez Díaz, procuratore aggiunto della Procura speciale contro l’impunità, accusata di divulgazione di informazioni riservate.

La denuncia è partita da Ronald García Navarijo, ex dirigente della Banca dei lavoratori, arrestato nel 2018 per associazione illecita finalizzata a drenare fondi dall’istituto, fuori dal carcere dal 2020. Navarijo sostiene che Zamora, che rigetta le accuse e ha dichiarato al giudice di sentirsi un «prigioniero politico», gli abbia consegnato circa 38mila dollari in contanti con la richiesta di versarli su uno dei suoi conti. Anche se la procura ha sottolineato che l’arresto non è legato alla sua attività giornalistica, l’immagine del direttore di un quotidiano in manette circondato da poliziotti ha attirato l’attenzione internazionale. Il motivo non è legato solo all’importanza della figura di Zamora, ma anche al fatto che il direttore de elPeriódico non è il primo giornalista nel Guatemala del presidente Alejandro Giammattei a essere oggetto di un procedimento giudiziario. «Si è diffusa la sensazione che questo arresto sia un punto di svolta e che se non cambia qualcosa diventeremo come il Nicaragua, dove la stampa indipendente è stata praticamente espulsa. Molti colleghi mi hanno confidato di avere paura», racconta Evelyn Blanck, giornalista e direttrice di Centro Civitas, organizzazione che difende la libertà di espressione. Per capire quanto sta accadendo bisogna tornare al gennaio del 2019 quando l’allora presidente Jimmy Morales non rinnovò il mandato della Commissione internazionale contro l’impunità (Comisión internacional contra la impunidad en Guatemala – Cicig, ndr), un organismo anticorruzione sostenuto dalle Nazioni Unite, nato nel 2006 in accordo con il Guatemala. Le indagini della Cicig arrivarono a coinvolgere anche tre degli ultimi quattro presidenti, Molina, Morales e Giammattei (che ancora non era stato eletto), ed ebbero l’effetto di un terremoto nella classe dirigente del Paese, dove la ricchezza e il potere sono storicamente concentrati nelle mani di una ristretta élite di imprenditori e metà della popolazione vive in povertà. Il lavoro della Cicig fornì anche materiale d’inchiesta per la stampa. Per questo, l’ondata di criminalizzazione che ha colpito pubblici ministeri e giudici anticorruzione, 24 dei quali oggi sono in esilio, ha riguardato anche i giornalisti. In sei sono usciti dal Paese.

«Da allora giudici e pubblici ministeri che hanno occupato le posizioni dei colleghi che seguivano casi importanti di corruzione hanno iniziato a criminalizzare anche i giornalisti generando censura e un restringimento degli spazi di libertà di espressione», spiega Claudia Ordóñez Viquez dell’Ong Artículo 19.

Tra i giornalisti in esilio c’è Juan Luis Font, conduttore e direttore di programmi televisivi e radiofonici, per anni al fianco di Zamora nella redazione de elPeriódico, del quale è stato anche direttore. Font ha lasciato il Guatemala a marzo dopo che Alejandro Sinibaldi, imprenditore ed ex ministro delle Comunicazioni coinvolto in più di un caso di corruzione, lo ha accusato di riciclaggio. Dopo Font, anche Erika Aifán, tra i giudici più in vista dello Stato e premiata a livello internazionale per la sua attività, è uscita dal Paese dopo essere stata accusata di abuso di potere per aver deciso, come prevede la legge, di unire i casi relativi al giornalista e all’ex ministro sotto la sua giurisdizione.

«Non c’erano le garanzie per un giusto processo», ha spiegato Font, intervistato pochi giorni dopo l’arresto di Zamora. «Sinibaldi mi accusava di aver ricevuto il denaro per pubblicare servizi a lui favorevoli, ma io ho aperto i miei conti bancari e mostrato le pubblicazioni critiche verso l’ex ministro. Questo non è bastato a far archiviare le accuse». Font ha avuto paura di finire in carcere, proprio come è accaduto a Zamora: «Non avrei più potuto parlare mentre dall’estero continuo a informare su ciò che sta accadendo». Per Font «le inchieste della Cicig avevano colpito gli interessi di potenti attori economici e politici che ora si stanno vendicando di tutti coloro i quali hanno appoggiato la lotta alla corruzione».

Anche se la criminalizzazione dei giornalisti non è un fenomeno recente in Guatemala, dove fin dai primi anni duemila molti comunicatori delle radio indigene sono stati portati in tribunale per cavilli legali, nel 2020 è diventato «uno dei fenomeni più preoccupanti». Lo si legge nel rapporto Guatemala: lo Stato contro la stampa e la libertà di espressione redatto dall’Ong Artículo 19 e dalle associazioni guatemalteche Centro Civitas e Artículo 35, nome che deriva dal numero del passaggio costituzionale che difende la libertà di espressione: tra il 2011 e il 2020 sono state registrate 820 aggressioni, soprattutto minacce, ma anche 49 omicidi e nonostante undici anni fa sia stata istituita una procura speciale per i crimini contro i giornalisti, solo il 6 per cento delle denunce è arrivato a sentenza. I giornalisti guatemaltechi, a differenza di quanto accade in altri Paesi dell’America Latina, non possono nemmeno contare su un programma di protezione, nonostante l’impegno che il loro Stato ha assunto nel 2012 davanti alle Nazioni Unite. Per questo nel 2020 un gruppo di organizzazioni locali e internazionali, tra le quali quelle che hanno redatto il rapporto, hanno creato la Red rompe el miedo, che letteralmente significa “Rete spezza la paura”, mutuando l’esperienza dal Messico, con l’obiettivo di monitorare i rischi ed elaborare protocolli operativi in caso di allerta per l’incolumità di un collega.

«Le aggressioni più preoccupanti sono quelle dei funzionari pubblici, soprattutto poliziotti ma anche sindaci e membri dei consigli municipali», spiega Evelyn Blanck, tra le creatrici della Red. I più vulnerabili sono i giornalisti che lavorano in provincia, dove gli interessi delle multinazionali o della criminalità nello sfruttamento e nel controllo del territorio sono molto forti. «Con gli ultimi due governi sono state però proprio le alte cariche del Paese a dequalificare costantemente il lavoro della stampa», conclude Blanck. Lo sanno bene i giornalisti Marvin del Cid e Sonny Figueroa, rispettivamente fondatori di Artículo 35 e del sito Vox Populi, che con le loro inchieste su corruzione e abusi di potere sono diventati una spina nel fianco del governo di Alejandro Giammattei. Proprio il presidente della Repubblica nel corso di una conferenza stampa li ha soprannominati el combo, alludendo al fatto che da un paio di anni i loro articoli sono sempre a doppia firma. «Così facendo, ci ha reso identificabili e quindi più vulnerabili perché la gente che lo sostiene da allora ha iniziato a diffamarci in rete», sottolinea del Cid.

Negli anni, del Cid e Figueroa sono stati calunniati, ripetutamente fermati dalle forze dell’ordine, minacciati di morte da anonimi. A settembre 2020, Figueroa, dopo aver chiesto aiuto a una volante della polizia per denunciare uno scippo avvenuto davanti al Palazzo nazionale a Città del Guatemala, è stato picchiato dagli agenti e incarcerato per venti ore sulla base di accuse infondate. Otto mesi dopo, nel maggio 2021, del Cid e Figueroa sono stati denunciati per violenza psicologica contro le donne dalla moglie e dalla sorella dell’ex direttore del gabinetto di governo, Luis Miguel Martínez Morales, al tempo il funzionario più vicino al presidente Giammattei, per aver pubblicato un’inchiesta sulle proprietà di lusso in cui si erano trasferite.

«Come è possibile che un giudice accetti di procedere in merito a una denuncia per violazione della legislazione sui femminicidi per contrastare un giornalista nell’ambito del suo lavoro?», si chiede Figueroa. «Il vero intento era censurarci: il giudice ci ha condannato a non pubblicare nulla su quelle persone per sei mesi». Per la loro sicurezza del Cid e Figueroa nel 2021 si sono trasferiti in Costa Rica: «Ma siamo tornati dopo tre mesi. Sentiamo che il nostro Paese ha bisogno del nostro lavoro».