La leader di Fratelli d’Italia cerca di rassicurare i mercati e le diplomazie, tirando anche in ballo Mario Draghi. Ma il suo spirito sovranista e le ambizioni autarchiche restano

L’ultima volta che l’Italia è stata costretta a convivere con l’inflazione a due cifre - la feroce tassa sui poveri - correva l’anno 1984. A Palazzo Chigi c’era Craxi e al Tesoro il buon Goria che Forattini disegnava senza volto, come l’uomo di Magritte. L’anno prima le cose era andate peggio tanto che per arginare l’aumento incontrollato dei prezzi (+14,7) si usò la mano forte: prima l’accordo di governo che impegnava i sindacati a sospendere la contrattazione integrativa e la Confindustria ad accettare il rinnovo dei contratti fermi da tempo; poi il blocco degli affitti, la semestralizzazione della scala mobile e il taglio di tre punti di contingenza che spaccò l’unità sindacale e la sinistra. Così nel 1985 l’inflazione scese sotto il dieci (9,2), non lontana dall’8,5 che l’Italia sfiora oggi, presente di guerra, vigilia di elezioni e di possibili, epocali svolte.

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Di questo, però, si parla poco, c’è solo la corsa di tutti perché della causa principale del carovita, il gas russo, l’arma strategica di Putin, si occupi Mario Draghi: altro dettaglio esaltato per dimostrare l’affidabilità di Meloni, oltre a «la destra al potere perché no… Giorgia non è fascista… c’è Crosetto a frenarla… è la più filoatlantica di tutti… il problema è Salvini… lei parla con Draghi… è piaciuta un casino sia al popolo del Meeting che al gotha di Cernobbio». Alleluja.

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Eppure Meloni è Meloni. Basta leggere “Io, Giorgia”, autobiografia-manifesto, o il programma della destra, o ascoltarla quando si lascia andare - succede - per ritrovare la sovranista che è in lei. L’afflato nazionalista che alimenta la fiammella di Fratelli d’Italia può generare sogni autarchici, come rivela la critica alla globalizzazione (Le Pen docet), ma suona paradossale in un paese le cui imprese macinano almeno la metà del loro fatturato esportando all’estero.

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Sovranismo è anche il tormento dello stare in Europa. Del resto, a differenza perfino di Berlusconi, Meloni viene da una cultura che ha poco a che spartire con il disegno unitario. È vero che non ripete più affermazioni choc («L’euro è una moneta sbagliata… proponiamo lo scioglimento concordato della zona euro», febbraio 2018), ma solo nove mesi fa alla Camera, discussione sul Mes, ha urlato: «Prima Bruxelles ci ricattava con lo spread, ora con i soldi per il Covid». E una settimana fa a Cernobbio, a proposito delle sanzioni alla Russia: «Ci chiamavano autarchici, ma avevamo ragione noi». E infatti è nelle ferme intenzioni di Meloni riaprire la trattativa sul Pnrr, per chiedere di più (e fare più debito) e spendere in piena autonomia: il contrario della scelta Ue che all’Italia ha dato molto più che agli altri purché avviasse riforme e aderisse a progetti comuni.

 

Si dirà: vantiamo il record del debito, ma non siamo nel 2011, cresce la quota di titoli pubblici in mano alle banche centrali e cala quella degli investitori esteri pronti a scappare quando c’è maltempo. Ma stavolta c’è in più un rischio recessione che avvolge l’Europa intera, Germania compresa (le “nuvole” che Draghi vedeva all’orizzonte); di ricette per la crescita non si parla (produttività, lotta all’evasione fiscale, riforma della burocrazia toccano interessi e rendite che in campagna elettorale meglio di no…); e proposte come le pensioni minime a mille euro (costo, secondo Boeri e Perotti, 33 miliardi), la flat tax, il blocco dei prezzi in cambio di sovvenzioni pubbliche o l’alt alla vendita della fu Alitalia lasciano intravedere un futuro di statalismo, conservazione e scostamenti di bilancio che farebbe la gioia della speculazione internazionale. Per fermarla non basta stare con la Nato. Né invocare Draghi. Dopo averlo osteggiato e licenziato.