Nel documento Azione – Italia Viva il tema del diritto di cittadinanza viene derubricato nell’immigrazione e non nei diritti. «L’ennesima prova della mancata volontà di informarsi su com’è la società italiana oggi»

«Chi studia in italiano e in Italia è italiano». Non ci sono dubbi nelle parole pronunciate dal leader di Azione, Carlo Calenda, oggi al Senato durante la presentazione del programma del terzo polo, che lo vede candidato premier di un'alleanza con Italia Viva di Matteo Renzi.

 

Qualche confusione però emerge a sfogliare il programma presentato insieme alle ministre Elena Bonetti, Mara Carfagna, Maria Stella Gelmini, e ai deputati di Iv Maria Elena Boschi e Luigi Marattin.

 

Sessantotto pagine che vanno dalla crescita del mezzogiorno all’Europa. Il colpo d’occhio arriva dagli attivisti di seconda generazione che a un primo impatto sfogliano il programma senza ritrovarsi: «Ci ho messo un po’. Poi ho capito», dice Mattia che ha 19 anni, nato e cresciuto a Roma ma con la Nigeria sul volto. «Hanno inserito la questione dello Ius Scholae nel capitolo Immigrazione».

 

E in effetti a pagina sessanta, capitolo “Immigrazione”, si legge: “Ius Scholae (acquisizione della cittadinanza) per chi abbia frequentato per almeno cinque anni un percorso di formazione in Italia. Inoltre, proponiamo di concedere la cittadinanza a tutti gli studenti stranieri che hanno svolto e completato gli studi universitari in Italia”.

 

La questione, come è noto, non ha niente a che vedere con l'immigrazione, tuttavia la legge per dare la cittadinanza ai ragazzi figli di immigrati, nati o cresciuti in Italia, viene considerata dal terzo polo un capitolo del programma migranti. Una scelta: «Discriminante», commenta a L’Espresso Naomi Kelechi Di Meo, co-fondatrice di Art3 Collective, un collettivo che mira a cambiare la narrazione sui ragazzi di seconda generazione online attraverso divulgazione sui social e anche offline con le iniziative in università e scuole.

 

«Questo non è uno status su Facebook bensì un programma politico nel quale possiamo notare la mancata volontà di informarsi su com’è la società italiana oggi e da chi è composta», sottolinea Di Meo ricordando i dati relativi all’anno scolastico 2019/2020, secondo cui frequentano le scuole italiane più di 877mila alunni con cittadinanza non italiana, quasi 20mila in più rispetto all’anno scolastico precedente, pari al 10,3 percento del totale.

 

Il posizionamento della questione racconta in filigrana un’altra storia: «Quella di una politica che da decenni non ha voglia di interrogarsi su chi sono veramente i ragazzi di seconda generazione, ma che al contempo non si fa problemi ad usarli come percentuali per campagne politiche sia da un lato che dall’altro. Mettere lo Ius Schoale in “Immigrazione” invece di “Diritti” è l’ennesima prova lampante di come lo stereotipo dello straniero sia ancora parte integrate della politica italiana che si rifiuta ti legittimare e riconoscere il cambiamento sociale che si verifica da ormai molti anni. Un ragazzo nato da genitori stranieri in Italia è italiano. Rifiutarsi di vedere questa cosa evidenzia l’intenzione da parte della classe dirigente di non voler riconoscere il fattore egualitario che mette un ragazzo di seconda generazione alla pari dei suoi coetanei. Questa retorica dell’italianità che si trasmette solo attraverso il sangue è radicata in un razzismo che oltre essere ideologico e sociale è anche giuridico e politico».

 

Oggi si è cittadini italiani solo per discendenza (ius sanguinis) mentre l'ipotesi di modifica della cittadinanza prevedendo lo ius soli (sono italiani i bimbi nati in Italia) è naufragata. Questo parlamento ha discusso a lungo della possibilità di approvare lo ius scholae cioè la versione light della riforma della cittadinanza che prevede che un bambino straniero ha diritto a diventare cittadino italiano solo dopo avere frequentato 5 anni di scuola e se è entrato nel nostro Paese prima di avere compiuto 12 anni. Ma la proposta non è mai arrivata in discussione alla Camera dei Deputati.