A Savoca, nel Messinese, i donkey tour organizzati da Salvo Moschella. Ha salvato “don Pippino” dal macello e da allora si è votato alla salvaguardia dell’animale simbolo dell’economia rurale, soppiantato da trattori e 4X4

Saranno pure più lenti, e meno cinematografici, dei cavalli ma il loro passo è saldo, agile, tenace, resistente, assuefatti come sono a sopravvivere in contesti estremi. E se fiutano un pericolo, per sé stessi o noialtri, si impuntano. Razza umile e stoica, libera e intelligente, con buona pace di De Amicis e della vulgata medievale da cui quest’ultimo aveva tratto linfa. In Italia erano giunti al seguito dei fenici. Hanno servito devotamente per millenni gli esseri umani, gli asini, sgobbando e rimpiazzandoci nelle operazioni più impervie.

Immolati come animali da lavoro, bestie da soma, sull’altare dell’agricoltura vintage: tiravano gli aratri, facevano girare i mulini. Fondamentali anche nei nostri modi pre-tecnologici di muovere le persone, le cose e le merci. Nulla ci era precluso grazie a simili servigi gratuiti, nemmeno il terreno di montagna più dissestato e tortuoso. Se non fossero apparsi sulla faccia della terra non avremmo forse edificato le nostre città, le nostre civiltà. Poi sono arrivati i boom economici, le automobili, la meccanizzazione nelle campagne, le strade carrabili al posto delle mulattiere. E ci siamo dimenticati di loro. Il segno di un passato ignominioso, da scrollarsi di dosso.

Ma c’è chi prova a contrastare questa deriva culturale e morale.

Siamo a Savoca, a un pugno di chilometri da Taormina, con affaccio panoramico sullo Ionio e l’Etna. Qui vennero girate scene capitali de “Il Padrino” di Francis Ford Coppola, nel pantheon dei film più rilevanti di sempre e che festeggia, proprio quest’anno, cinquant’anni sul grande schermo. Da altrettanto tempo il piccolo centro siciliano è meta di un incessante flusso cine-turistico internazionale, che rende omaggio alla pellicola di culto. Qui vive Salvo Moschella, fondatore de “Il sentiero dell’asino”.

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41 anni, tanti mestieri e sacrifici pregressi per sbarcare il lunario («iniziai da ragazzino raccogliendo i limoni, muratore, giardiniere»), il sogno coronato di una casa-vacanze tutta sua dove ha sperimentato l’embrione dei successivi donkey tour. «È nato tutto per caso, io cresciuto in mezzo ai cavalli, ne ho cavalcati a centinaia. Non ne avevo mai visto uno: anzi pensavo, vittima dei soliti pregiudizi, che fossero animali stupidi. Se svogliato o testardo, se andavi male a scuola eri un asino». Intorno ai dieci anni il suo primo rendez-vous. Accidentale. Un’epifania.

«Ero in macchina dalle mie parti con mio padre e un suo amico, che esclamò: “Guardate don Pippino, l’ultimo sciccaro di Antillo”. Mi affacciai dal finestrino e vidi questo signore anziano, con la gobba e la giacca di un paio di misure più ampia, il viso e le mani solcati da rughe profonde, una coppola bassa sulla fronte. Anche il suo asino sprigionava un’espressione stanca, vecchio e smagrito. Provai un sussulto». Qualche anno e la storia si ripete. «Indicandolo, mi dissero: “Non appena muore don Ciccio nessuno utilizzerà più l’asino”. Ci fermammo a fare due chiacchiere ed ebbi una nuova fitta al cuore a osservarli insieme, entrambi ingrigiti e appassiti, mesti».

Salvo accarezza Peppino, tenero, distaccato e fiero, lo sguardo velato di gratitudine. «È stato il primo asino che ho salvato dal macello. Con lui si è instaurato un legame così viscerale che comunichiamo senza parole: ci lega un rispetto reciproco, un grande affetto, un vincolo invisibile». Lo acquistò da un amico macellaio, evitandogli il mattatoio. «Li aveva comprati pochi mesi prima, magrissimi, per ingrassarli, fargli pulire il terreno senza dover ingaggiare qualcun altro e infine macellarli. Stava per imperversare la stagione degli incendi e nella sua proprietà non c’era più un filo d’erba, tutto pulito. Mi vennero incontro, dall’altro lato della recinzione, cinque puledri d’asino, con le orecchie tese verso di me. Mi fissavano con i loro occhi enormi. Lo dissi a mia moglie e tornammo insieme per Peppino».

Dopo ne ha rilevati altri. La famiglia è cresciuta, «attualmente ho quattro asini, tutti ragusani, di una razza che era stata selezionata e adoperata nella Prima e nella Seconda guerra mondiale per il trasporto degli armamenti sulle Alpi». Anche Napoleone e altri celebri condottieri li prediligevano per queste mansioni.

«Quando ho avviato i donkey tour, i “tour dell’asinello” per la valle e il centro storico, la gente mi fermava e si congratulava con me. Soprattutto le persone più avanti con l’anagrafe, che mi raccontavano le loro avventure novecentesche.

 

Alle volte i loro visi si rigavano di lacrime. Mi mettevano a parte di vicende sepolte: per loro quest’animale era stato una macchina, un fedele compagno di mestiere e di sudore. Vivevano giorno e notte in compagnia degli asini; ci dormivano, letteralmente, insieme. Poi il progresso li ha sostituiti con i trattori, le quattro ruote a benzina. E si è spenta, progressivamente, questa tradizione secolare». Parlano i numeri dell’Istat. La ritirata è impressionante.

Nella nostra penisola siamo scesi dalle 125 mila unità del 1941 alle 30 mila del 2000. Alcune specie si sono pressoché estinte. Oggi gli asini vengono impiegati per lo più nella pet-therapy, nel cosiddetto onoturismo, nei trattamenti di bellezza. E pensare che li nominavano la Bibbia, il Corano e il Talmud. Gesù li scelse come veicolo naturale per recarsi a Gerusalemme. I ciuchi campeggiano in pietre miliari della letteratura (da Apuleio a Pinocchio) e dell’arte (Lorenzo Lotto e Piero della Francesca, per esempio). «Faccio pochi giri, non voglio sfruttarli oltremodo. I turisti rimangono in genere meravigliati, sbalorditi. Un gigantesco e romantico salto indietro delle lancette dell’orologio. Specialmente gli italo-americani, figli e nipoti di emigranti che li avevano allevati con queste memorie preziose. Vogliono ripercorrere le gesta dei loro parenti e dei loro avi, si emozionano. Un turismo delle radici, dell’anima».

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Salvo Moschella riecheggia un po’ la parabola di uno dei protagonisti de “Il cane che andava per mare”, uscito per Neri Pozza una ventina d’anni fa. Stefano Malatesta narrava di Ulli, un tedesco della Bassa Sassonia trapiantatosi nell’isola Ginostra per vestire i panni del mulattiere. Era uno degli “eccentrici siciliani” tratteggiati magistralmente nel libro: la loro segreta differenza stava «in quella forma mentale che si chiama insularità, un atteggiamento dello spirito, un carattere, un modo di vedere le cose per estremi, prima ancora di essere un dato geografico». Sempre nell’isola del Gattopardo (a Castelbuono, in provincia di Palermo), dal 2007 sei femmine d’asino attraversano quotidianamente le viuzze del paese con delle gerle sul dorso. Si prendono carico della raccolta differenziata dei rifiuti. Altro che i rumorosi e inquinanti autocompattatori. Un’idea economica ed efficace: da quando hanno ricevuto l’“appalto”, la qualità e la quantità del servizio sono migliorate sensibilmente. Il modello è stato ripreso in seguito da diversi borghi tricolori, da Riace a Montalto Ligure. Sarebbe però inapplicabile in una metropoli.

Ma torniamo a Savoca. Salvo non si compiace della sua ascensione nell’immaginario collettivo perché set de “Il Padrino”. Il processo è stato tuttavia implacabile. Con un climax nei mesi a venire, complice l’anniversario del mezzo secolo. Coppola vi trasportò le maestranze tecniche e artistiche di “The Grandfather” ravvisandovi un’immagine ancora autentica e rurale della Sicilia. Il suggerimento era stato del barone Gianni Pennisi. E a Corleone sarebbe stato troppo forte il rischio di infiltrazioni mafiose. Furono 320 le comparse indigene coinvolte.

 

Il ciak più famoso è il matrimonio di Michael Corleone (Al Pacino), figlio del boss don Vito (Marlon Brando), con Apollonia: se ne innamorò a discapito dell’avvertimento della sua guardia del corpo, «in Sicilia i fimmini sunnu comu ’a lupara». Abbiamo conosciuto Vincenza Cicala, adesso 86enne, “la mamma di Apollonia”. Ha ammiccato auto-ironica alla sua parentesi gloriosa. I turisti continuano a chiederle autografi e selfie-ricordo. Un altro sacrario di celluloide-realtà è il bar Vitelli, cristallizzato all’alba degli anni Settanta. Si racconta che Francis Ford Coppola ingurgitasse fino a quindici granite al giorno. Il caldo opprimeva quasi come oggi. Anche Robert Louis Stevenson, per il suo “Viaggio nelle Cévennes” optò, come da prosieguo del titolo, per la compagnia di un asino. Di sesso femminile, si chiamava Modestine. Sguardo affabile e mascella risoluta. Si intesero seduta stante. Condivisero le vertigini delle vallate della Francia meridionale. Lo scrittore introdusse un dialogo uomo/animale intessuto di sole carezze. Funzionava meglio degli attrezzi di pungolo. Quando al termine del voyage, precursore della letteratura all’aperto, fu costretto a venderla, avvertì un dolore insanabile. La figura di Modestine non l’avrebbe abbandonato più, come l’eco dolcissima del suo raglio. Se questo è un somaro. «Un amico è un regalo che fai a te stesso». Fu la sua prima isola del tesoro.