Ogni partito candida il proprio leader. E così si aumenta il livello della confusione

A dar retta ai sondaggi, la partita elettorale del 25 settembre sarebbe già decisa, vincerebbe la destra, e trionferebbe Giorgia Meloni conquistandosi il privilegio della premiership. E vabbè. Ma si sa, una cosa sono le previsioni, altra le schede nell’urna. Specie se a destra c’è un clima da fratelli coltelli. Stavolta, poi, il “draghicidio” ha prodotto sconvolgimenti, radicalizzato la sfida – o di qua o di là – e imposto la ricerca di alleanze, anche per via di una legge elettorale cervellotica. Insomma, nulla è scontato, è solo l’inizio di una campagna caldissima dalla quale uscirà un Parlamento ridotto nei numeri (da 945 a 600 parlamentari). Una sfida decisiva. Di cui quelli che seguono sono i personaggi e interpreti. Con i loro problemi e desideri.

 

Draghi non c’è, ma c’è. Il premier dimessosi senza sfiducia ha fatto capire di non sentirsi più in campo. Eppure c’è. Per molti è il premier irrinunciabile, per gli altri è come l’ombra di Banco. Non a caso la campagna s’è aperta all’insegna dell’“Agenda Draghi”, intesa come programma, bandiera intorno alla quale costruire una coalizione vincente. Agenda che però senza di lui è solo un elenco di cose da fare. Non basta.

 

Ritorno a Pratica di Mare. Quattro giorni dopo il voto compirà 86 anni, cinque più di Sergio Mattarella, due più di Giuliano Amato. Eppure Berlusconi, nonostante l’età e gli acciacchi, si sente in pista. Un passato che non passa. Cedendo alle pressioni di Matteo Salvini, e nel tentativo di fermare Giorgia Meloni e il declino di Forza Italia, Berlusconi si è fatto convincere a dare il colpo di grazia al governo Draghi. Decaduti i vincoli della legge Severino, intende presentarsi per il Senato: vuole la rivincita dopo la condanna definitiva per frode fiscale che lo costrinse nel 2013 a lasciare Palazzo Madama e nel 2019 a non ricandidarsi.
Retroscena credibili (Tommaso Ciriaco, “la Repubblica”) dicono che per convincerlo a pugnalare Draghi, Salvini gli abbia offerto la presidenza del Senato. Dai tribunali alla seconda carica dello Stato.

Ai suoi amici, però, Berlusconi ha confessato un altro sogno: ministro degli Esteri, per convincere «l’amico Putin» a firmare la pace con l’Ucraina. Del resto, solo due mesi fa ha ricordato di aver portato «nel 2002 allo stesso tavolo Bush e Putin per firmare il trattato che pose fine a più di cinquant’anni di guerra fredda». Ma da Pratica di Mare sono trascorsi vent’anni e alla guerra fredda zar Vladimir preferisce ora missili e bombe.

 

Meloni ringrazia Confalonieri. «Chi vince andrà a palazzo Chigi», ripete lei convinta di arrivare prima; «Chi vince avrà il privilegio di indicare il premier», corregge invece Salvini. La battaglia è tutta qui, dentro e fuori la destra. All’appuntamento Meloni si prepara da tempo. Si presenta bene, sorride, si prepara su ogni dossier. Si schiera con la Nato, non dice un parola su Draghi, non se la prende più con Bruxelles. Maquillage elettorale. O il tentativo di far dimenticare le falangi neofasciste dell’apparato di partito e l’amicizia politica con Orban, Le Pen e gli spagnoli di Vox per i quali ha tenuto a Barcellona un comizio immortalato in un video nel quale, invece, “esce al naturale”.

Se davvero andasse a Palazzo Chigi, sarebbe la prima neofascista al potere. Tre mesi fa, forse paventando obiezioni del Quirinale, Meloni ha convocato una convention programmatica a Milano, la capitale di Salvini e Berlusconi, e schierato sul palco testimonial di una nuova classe dirigente: Carlo Nordio, Luca Ricolfi, Gennaro Sangiuliano, l’imprenditore veneto Matteo Zoppas. Candidato premier preferito, Giulio Tremonti, il politico convinto che la caduta del governo di cui era ministro del Tesoro sia stata l’effetto di un golpe provocato nel 2011 dalla lettera della Bce, firmata anche da Draghi, che bocciava la politica economica e imponeva misure finanziarie tali da spingere Berlusconi alle dimissioni e Mario Monti a Palazzo Chigi. Agenda Tremonti contro agenda Draghi. Vecchi e nuovi rancori.

Ora però Meloni vuole giocare in prima persona. E le reazioni preoccupate dei partner lo confermano. Si dice che al passo decisivo abbia contribuito l’intervista al Corriere della Sera di Fedele Confalonieri, il più stretto sodale di B., che ad Aldo Cazzullo ha confessato la sua ammirazione per Giorgia. La quale ha visto in quel plauso anche l’assenso dell’imprenditoria del nord stufa delle intemperanze di Salvini.

 

Vecchie e nuove felpe. A far prevalere il Salvini d’opposizione su quello di governo è stato l’uragano Giorgia e l’ansia di fermarla. Conte, aprendo la crisi, gliene ha dato l’opportunità. Ma non basta. Per strappare a Meloni il diritto alla premiership è necessario prendere un voto in più di lei. Questa possibilità passa per un accordo di ferro con Berlusconi, che ha lo stesso obiettivo. Senza contare che se davvero Salvini vuole tornare al Viminale, ha bisogno della presenza al suo fianco di Forza Italia per moderare la sua immagine intemperante, specie sul piano internazionale. E magari archiviare il ricordo di quando a Bruxelles, indossando una felpa con la faccia di Putin, offriva «due Mattarella per mezzo Putin».

 

Jolly Calenda. Potrebbe diventare il jolly, e forse anche la sorpresa di queste elezioni. È con Carlo Calenda che Letta intende allearsi. La sua “Azione” è il gruppo con più appeal, più vicino al Pd e più consistente: alle ultime comunali a Roma ha superato un insperato 19 per cento e nel ballottaggio ha appoggiato Roberto Gualtieri. Dalla sua ha i numeri, un discreto ascendente personale e si presenta ancora come una novità della politica. Però non ha un carattere facile e alla proverbiale prudenza di Letta oppone una certa irruenza, poco nota in casa Pd: mentre si alleava con Letta gli negava la candidatura a palazzo Chigi e si spendeva per Draghi premier, del quale però non si conoscono né intenzioni né disponibilità. Tanto che ha aggiunto: «Se Draghi non ci sta, mi candido io…». Ma dal momento che il Rosatellum obbliga ogni singolo partito a indicare non il candidato premier ma il capo politico, questo can-can di nomi rischia solo di creare una gran confusione. Non è un po’ presto per parlare del governo che verrà? Primum vincere.

 

Con Letta senza Renzi. Enrico Letta si gioca tutto: la possibilità di fermare una destra vicina al governo e il successo della sua segreteria. Primo problema, le alleanze. Finita la luna di miele con i Cinque Stelle dopo lo sgambetto di Conte, e impossibile l’intesa con Matteo Renzi (che pare corra da solo), Letta ha scelto il Patto repubblicano di Calenda che comprende anche +Europa di Emma Bonino. Lo hanno spinto su questa strada due vecchi del mestiere, Giorgio La Malfa e Romano Prodi, anche per via di una legge elettorale che favorisce le coalizioni. Il Rosatellum, più complicato di un gioco cinese, vieta infatti il voto disgiunto, rende quindi pressoché impraticabili le desistenze nei collegi uninominali dove presentandosi da solo il Pd non avrebbe molte possibilità. In tutto sono in gioco 147 seggi alla Camera e 74 al Senato, quasi il 40 per cento del totale: se la destra si presentasse unita e la sinistra sparpagliata, Meloni & C. potrebbero conquistarne fino al 70 per cento. E cambiare la Costituzione da soli. Per questo Letta ripete: «O noi o la Meloni». Ma perché la manovra funzioni c’è bisogno di aprire a tutti gli alleati possibili, senza chiusure preconcette. Per ora non è così, ma c’è ancora un po’ di tempo. Per fare e per sperare. E per trovare qualcosa di più convincente di un’alleanza.