Il fondatore di Luxottica da poco scomparso si è preoccupato di garantire ai manager indipendenza rispetto ai suoi eredi. Perché il problema delle imprese familiari e della loro gestione è uno dei principali della nostra imprenditoria

Anche il Financial Times ha dato un notevole e meritato spazio alla figura di Del Vecchio e ha notato come i membri della sua famiglia non abbiano mai avuto un ruolo nelle sue compagnie. Il giornale riporta anche la motivazione che Del Vecchio diede in una intervista: «La ragione è molto semplice. Si può licenziare un manager ma non si possono licenziare i propri figli».

 

Avendo avuto sei figli da quattro matrimoni con tre donne (una, Nicoletta Zampillo, sposata due volte) Del Vecchio avrebbe una possibilità di scelta ben superiore a quella che hanno in media gli imprenditori italiani che nella grandissima parte continuano mettere a capo della impresa qualche membro la propria progenie. Del Vecchio ha intuito che, specialmente quando le imprese superano una certa dimensione, nominare i propri familiari dirigenti intacca l’efficienza della gerarchia manageriale. Potremmo anche aggiungere che contraddice un senso di giustizia che hanno i dipendenti dell’impresa che vorrebbe che i meriti fossero premiati indipendentemente dalla vicinanza al clan familiare.

 

Del Vecchio era da tempo ben cosciente che questa sua lucida visione della gestione dell’impresa sarebbe stata messa in crisi dalla sua scomparsa e ha provato a dare una soluzione individuale a questo problema prima di lasciarci. Le azioni della Delfin, la scatola lussemburghese che contiene il patrimonio di Del Vecchio, sono stati ereditate per il 25 per cento della (seconda e quarta) moglie Nicoletta Zampillo, e il restante 75 per cento è stato diviso in parti uguali tra i sei figli. Tuttavia sarà difficile interferire con le decisioni del management. In primo luogo lo statuto Delfin prevede che nessuna decisione sulla governance possa essere presa senza una maggioranza dell’88 per cento, cioè il consenso pieno di tutti gli eredi appartenenti a tre famiglie diverse. In secondo luogo la famiglia non può cambiare la squadra manageriale. Infine lo statuto Delfin prevede che gli incarichi dei manager Milleri e Bardin sono a vita.

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I limiti della soluzione che De Vecchio ha escogitato per continuare a tenere separati la famiglia e il management sono evidenti. In effetti, rendendo quasi inamovibile il management, essi contraddicono anche il principio che “si può licenziare un manager ma non si possono licenziare i propri figli”. Solo il passare del tempo ci potrà dire quanto siano state valide le sue soluzioni ma il punto che ci preme sottolineare è un altro: con tutti i suoi limiti De Vecchio ha avuto il merito di cercare una soluzione individuale a un problema sistemico del capitalismo italiano in cui la conduzione familiare e la successione dinastica frenano lo sviluppo di grandi imprese manageriali.

 

Come ho avuto già modo di sottolineare in un recente articolo sull’Espresso altre economie a capitalismo avanzato hanno adottato istituzioni che risolvono questo problema a livello sistemico. Negli Stati Uniti esistono dei meccanismi per cui con la crescita dell’impresa la famiglia ne perde il controllo rendendo il management autonomo dai meccanismi di successione familiare. In Germania l’esistenza di un board di indirizzo strategico di cui sono membri proprietari e lavoratori che nomina i membri del comitato esecutivo garantisce in un modo diverso l’autonomia del management.

 

In Italia non esiste nessun meccanismo simile a livello sistemico per affrontare questo stesso problema che De Vecchio aveva così ben presente. Quanto egli ha fatto nel ricercare una soluzione individuale va molto apprezzato ma la continuità dell’impresa e del management e la sua autonomia della famiglia non possono essere il frutto di sporadiche decisioni individuali. Molti anni fa, ai tempi delle privatizzazioni, si pose il problema di scegliere un modello di capitalismo che risolvesse questo problema. Purtroppo si scelse allora di non scegliere ma quanto fatto da De Vecchio dimostra che una riforma del capitalismo italiano è più che mai urgente e necessaria.

 

Ugo Pagano, economista e Professore di Politica Economica presso l'Università degli Studi di Siena e membro del Forum Disuguaglianze e Diversità