Nel 1959 nella Germania orientale il partito comunista provò a combattere la deriva occidentale imponendo anche uno stile di danza da Guerra fredda. Durò poco: al di là della cortina di ferro c’era Elvis Presley in divisa

Una donna vestita in modo quasi moderno si accosta alla telecamera ed esclama: «i venditori di dischi stanno ricevendo ultimamente strane richieste dai clienti. Chiedono il Lipsi. È un’epidemia». Le fa eco una coppia che sembra posseduta da una tarantola soft, stile music-hall: «Lipsi è la cosa più semplice che c’è. La danza è in 6/4, prendi la dama col braccio sinistro, così. Be’, è facile, guardate». E parte il primo immemorabile slogan: «Se davvero vuoi saperlo devi solo cominciare, ogni giovane oggigiorno il Lipsi vuole danzare». Gran finale con mantra pop alla bolscevica: «Oggi tutti i giovani danzano il Lipsi, solo il Lipsi. Oggi tutti i giovani vogliono imparare il Lipsi: è moderno! Rumba, boogie e cha cha cha sono danze sorpassate; ora dal nulla, da un giorno all’altro, è spuntato e resterà». Una classica parodia involontaria, una profezia autodistruggentesi. Il video continua a circolare su YouTube ma fa ormai tenerezza. Siamo nel 1959, tra i 45 giri più venduti figurano “Smoke gets in your eyes” dei The Platters e “Lonely Boy” di Paul Anka. Il rock and roll sta infiammando i cuori e i sensi dei ragazzi americani ed europei dell’ovest. Anzi, possiamo affermare che nascano proprio in quegli anni come generazione a sé sulle ali di un sound perturbante e catartico.

 

Nell’universo parallelo della Repubblica democratica tedesca, varato un grande piano settennale, la nomenklatura ritiene che la Guerra fredda vada combattuta anche sul piano dell’immaginario, della sfera subliminale del desiderio. Uno degli imperativi più urgenti è di trattenere in patria mentalmente, e nello spirito, i ventenni irretiti dalle sirene di un Occidente respirato in casa. La «controrivoluzione peccaminosa» di Elvis è già filtrata e rischia di dilagare nel paradiso del socialismo melodico in salsa puritana. Quale scandalo insostenibile per la dottrina ufficiale, tutti quei sussulti del bacino, la sessualità mimata. Occorre staccare in qualche modo la spina ai Chuck Berry e Little Richard, Gene Vincent e Jerry Lee Lewis, Johnny Cash e Buddy Holly. I mezzi domestici sono raccogliticci, certo, in ritardo istantaneo sul presente. Ma non si può più stare alla finestra.

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Bisogna aggirare e anestetizzare il pericolo. E così inventano un genere ex novo, una casta moda per le masse acconcia al proletariato dell’altra Germania. L’ordine arriva dall’altissimo, il lìder maximo Walter Ulbricht in persona: «Non basta condannare a parole la decadenza capitalista e le abitudini borghesi, i suoi caldi suoni e i canti estatici di un Presley. Dobbiamo offrire qualcosa di meglio». E quell’evoluzione della specie secondo il Sed, il partito-Stato, era il Lipsi, dal nome in latino di Lipsia. Un allegro e innocente motivetto contro i tentacolari e sulfurei messaggi pan-erotici e imperialistici propagandati con la scusa della chitarra elettrica. Giustizia sociale e musicale sarebbe stata fatta.

 

In fondo la post-verità l’ha architettata la Stasi. Un po’ come se dalle nostre parti Fanfani e Togliatti avessero fatto quadrato contro l’avanzata dei pruriginosi urlatori, occupando “Il musichiere” di Mario Riva con Gino Latilla travestito da Adriano Celentano. Ma torniamo alle immagini d’epoca, a quel passato quotidiano travolto dalla Cortina di ferro. Racconta Anna Funder nel libro “C’era una volta la Ddr”: «Ecco una coppia in sala da ballo: lui in giacca e cravatta, lei in abito lungo e scarpe con tacchi. Tutto molto strano. All’inizio donna e uomo sono rivolti nella stessa direzione, come in una danza greca. Si spostano da un lato all’altro, poi sollevano l’avambraccio e si allontanano inclinandosi, in maniera allarmante, come due teiere». Poi la macchina da presa «stacca sui loro piedi che, di punto in bianco, partono in una complessa figurazione da giga irlandese. Quindi i due si voltano uno verso l’altro e si uniscono in una presa di valzer prima di separarsi di nuovo con un saltello». A questo fa seguito «una mossa alla russa con le mani sui fianchi. Tutto ciò con un gran sorriso stampato sulle labbra». Contestualmente, una voce alla Doris Day canta sopra una sorta di bossa nova. Alla ballerina manca un incisivo. Bizzarrie in stereofonia. Fuga da “Rock around the clock”: molto meglio al limite, per amor di patria, “L’orologio matto”, la versione italiana del Quartetto Cetra. Vade retro movimenti pelvici: nel pittoresco Lipsi, il bacino sfida le leggi della gravità e resta statico, granitico, a distanza di sicurezza. Solo il busto slitta impercettibilmente. Non ci si tocca né ci si sfiora mai. Ballare insieme ma separati, uniti ma distantissimi, contemporanei ma con un contegno da satelliti sovietici. Lasciate i vostri ormoni fuori dalla stanza oh voi che lipsiate. Una tortura da inquisizione laica a bassa intensità. Si giunse persino a brevettarlo, troppo forte il rischio che lo clonassero le barbe finte del controspionaggio nemico.

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Il Lipsi fu creato, musicalmente parlando, dal compositore René Dubianski; gli ingegnosi e angelicati passi erano invece farina del sacco degli insegnanti di danza Christa e Helmut Seifert. La sua interprete più conosciuta, Helga Brauer, ex odontotecnico divenuta una stella sfolgorante della canzone popolare all’ombra del Patto di Varsavia, morì a 55 anni, il tempo di firmare centinaia di hit per il mercato interno. Insieme a lei incisero manifesti promozionali tematici su puntina, tra gli altri, The Flamingos (“All Dance Lipsi”), Martin Möhle Combo (“Willibalds Lipsi”) e la Leipzig Radio Dance Orchestra di Kurt Henkels. Uscirono tutti per Amiga, la sezione “leggera” della Veb Deutsche Schallplatten, l’etichetta discografica statale fondata nel 1947. L’inaugurazione della gloriosa alternativa comunista al R’n’r era stata celebrata in pompa magna nel gennaio del 1959, alla conferenza sulla musica da ballo a Lauchhammer. Tutte le balere del Regno Rosso avrebbero dovuto adottarla a strettissimo giro: era questa la convinzione degli infallibili commissari del popolo.

 

La Rdt avrebbe salvato un’altra volta il mondo con questa coreografia inedita imbottita di strofa e ritornello, educata e pedagogica e «lontana da quelle contorsioni insipide e sfrenate delle importazioni d’oltremare che, come tutti i tipi di assordanti falsificazioni jazz, appannano i cervelli dei giovani occidentali», scrisse la stampa autarchica. La campagna mediatica fu invasiva e martellante. Gli esiti subito disastrosi. Il Lipsi si dissolse in poco più di una stagione. Sul finire dello stesso anno del suo misterioso concepimento per vie ministeriali, ad Halle e in altre città gli under 30 insorsero. Il 2 novembre del 1959 quaranta intrepidi manifestarono nel centro di Lipsia, intonando «Non balliamo Lipsi e non per Alo Koll, siamo per Bill Haley e balliamo rock’n’roll». E quando si sparse la notizia che Elvis stava prestando il servizio militare nella Repubblica federale tedesca, tra i vicini e segregati coetanei di pianerottolo montò una frustrazione palpabile.

 

Nei decenni a seguire chi era cresciuto dalla parte sbagliata del Muro non rinunciò tuttavia a sognare il twist, il boogie-woogie, il beat. A divorare le audiocassette dei Beatles e dei Rolling Stones, degli U2 e dei Pink Floyd. Con buona pace delle prescrizioni del Politburo e del Plenum. Esisteva Dt64, la radio di facciata per le ultime generazioni, e il regime ogni tanto chiudeva un occhio; ma per suonare musica dal vivo serviva un permesso speciale, i testi erano controllati e la libertà degli ascolti risultava perniciosa al grande fratello marxista-leninista.

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Dall’autodeterminazione estetica a quella politica il passo è breve. Così pensava nel 1965 Erich Honecker, non ancora segretario e padrone feudale della scena, quando durante l’undicesimo congresso del comitato centrale sferzò l’acquiescente neutralità nei confronti della Gitarrenmusik. Non si dovevano lasciare spazi franchi fuori dalla scuola e dal posto di lavoro. La mobilitazione interiore del bravo compagno in erba doveva essere permanente. Un altro buco nell’acqua: tra mainstream e underground, l’Ostrock gettò radici rigogliose. Al netto di censura e perifrasi, e d’una perenne ostilità dell’apparato, spiccarono comunque il volo nel cielo sopra Berlino Est i Die Puhdys, i Karat, i City, i Silly, gli Stern-Combo-Meißen, i Pankow, i Sandow. Un pugno di eretiche leggende nazionali devote al dio del riff e delle distorsioni.

 

Tutt’altra accoglienza fu riservata negli anni Ottanta all’hip-hop, secondo le autorità quintessenza della «cultura internazionalista proletaria dell’Altra America». Qualche mese dopo crollò e si uniformò tutto. La chiamarono globalizzazione. Il Lipsi non lo ricordano nemmeno i nostalgici. Ma forse in qualche anfratto della galassia un dj lo sta suonando proprio in questo momento. E urla al microfono: «Passo a sinistra con il piede sinistro. Tocca a sinistra con il piede destro. Fai un passo con il piede destro a destra. Tocca il piede sinistro a destra». I ragazzi lo preferiscono alla trap. Almeno ci si muove. È il ballo dell’estate.