In un mercato segnato da guerra e crisi legate alle scelte comunitarie, si valorizzano colture dimenticate. “Ma per essere sostenibili come aziede è importante chiudere la filiera: dal produttore al consumatore, curando anche la vendita” (foto di Alfredo D’Amato)

Giorgio Collura cammina tra i suoi terreni come faceva suo nonno, tra gli affascinanti scenari dei monti sicani, a Santo Stefano Quisquina. Tra gli amici della sua generazione che hanno deciso di andare via, per trovare fortuna fuori dalla Sicilia, lui in quegli orizzonti ha invece trovato l’ispirazione per il suo futuro. Prendendo in mano quella terra che apparteneva ai suoi avi, per trasformarla e farla fruttare con l’obiettivo di poter vivere e lavorare in quello che lui considera un paradiso terrestre: «Noi siamo agricoltori da sempre, io sono cresciuto in queste terre e sono molto legato a mio nonno», spiega mentre passeggia tra le sue coltivazioni illuminato dal sole con uno sguardo sul futuro: «Ricordavo cosa coltivava mio nonno e ho voluto fare un passo indietro, passando dal grano moderno coltivato fino a 7 anni fa in questi terreni, ai cosiddetti grani antichi, Tumminia, Perciasacchi, Russello, Senatore Cappelli e altri ancora più rari e preziosi».

 

Mentre la Sicilia, primo consumatore di pasta in Italia, deve fare i conti con l’innalzamento del prezzo del grano moderno, aumentato ancora con lo scoppio della guerra per via della crisi legata alle materie prime e dei concimi per i terreni, c’è una realtà in crescita che sta riscoprendo il gusto delle varietà di conservazione, comunemente chiamati grani antichi. Come Giorgio, che adesso nella sua azienda ha acquistato un mulino e sta lavorando per la costruzione di un pastificio con l’obiettivo principe di tutti i nuovi imprenditori, ovvero quello di chiudere la filiera e commercializzare i prodotti, altre piccole realtà nascono sul territorio siciliano, regione che tra 27 qualità di grano duro riconosciute nel registro nazionale delle varietà di conservazione, ne conta sul proprio territorio ben 23, dall’Etna fino alla costa palermitana, da Agrigento fino al Belice. «Negli ultimi 10 anni c’è un nuovo interesse per i grani antichi, prodotto che oggi non ha seguito l’aumento del prezzo del grano moderno, nonostante i costi sul mercato siano ancora alti», spiega Bernardo Messina, del consorzio di ricerca “G. P. Ballatore”: «L’interesse dei consumatori detta le regole, per questo motivo lavoriamo per le certificazioni che portano ad avere la certezza di quello che si sta consumando attraverso un’attenta attività di studio come il nostro progetto Cavasifd sulla caratterizzazione morfologica, genetica e proteomica dei grani».

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La maggiore coscienza dei consumatori, ha portato a una maggiore richiesta e a una maggiore selezione che richiede quindi maggiori controlli e ricerche, affinché il grano sia autentico e non viziato da altre colture sul territorio. Così oggi al supermercato, accanto alle offerte della pasta industriale, troviamo i piccoli pastifici il cui prodotto arriva da farine riscoperte, come Tumminia, Perciasacchi, Maiorca, Russello, grani che hanno fatto la storia delle terre siciliane e che oggi vengono ritrattate perché sempre più ricercate.

 

Alcuni terreni che al tempo del grano a basso costo, non permettevano una rendita, adesso sono stati convertiti in coltivazioni di grani antichi. Una piccola parte che però continua a crescere da 15 anni, nel Paese che è primo produttore di pasta al mondo e che oggi ha bisogno di importare grano moderno da diverse nazioni, come il Canada (maggiore venditore per l’Italia) o come l’Ucraina, da cui però l’importazione di grano riguarda una percentuale bassa di prodotto. Prima dell’aumento, e anche a causa di una politica comunitaria (Pac) da molti agricoltori giudicata errata, il costo basso del prodotto aveva portato però alcuni ad abbandonare la via del grano, lasciando terreni incolti al destino della desertificazione.

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L’aumento del prezzo del nuovo raccolto sarà dato anche da una delle peggiori annate per il grano moderno che, a causa della siccità dei mesi cruciali, avrà una riduzione della produzione stimata tra il 10 e il 30 per cento rispetto all’ultima stagione. Anche per questo molti hanno deciso di cambiare strada, investendo in una nuova concezione, tutta biologica, della produzione agricola, differenziandosi per qualità pur riducendo la quantità. Tra questi c’è anche Rosario Pendolino, 37 anni, di Aragona, ha deciso di tornare da Londra, dove lavorava in un ristorante con un grande successo, per tornare nel suo paese, a pochi passi dai luoghi di Pirandello, per rilevare l’azienda di famiglia, passando dall’olio alla farina e ora ai grani antichi: «Avevo abbandonato questa strada ma adesso ho deciso di ritornare a produrli con una nuova idea: ho lavorato infatti con l’obiettivo di riuscire a chiudere la filiera del pane, partendo dal grano fino al panificio, diventando io produttore, io mugnaio e io venditore. La produzione dei grani antichi in maniera economicamente sostenibile è possibile solo se si riesce a chiudere la filiera, quindi bisogna progettare bene prima di seminare, facendo un piano di mercato adeguato e comprendendo gli spazi di vendita, altrimenti è tutto perduto e il grano da conservazione viene venduto come grano moderno alle grandi catene a un prezzo ribassato».

 

Lui con la sua azienda “Terra Dunci” è riuscito con diversi investimenti a chiudere la filiera e a vendere alla fine i prodotti “figli” del suo grano, vendendo direttamente il pane nella sua attività commerciale. «Soltanto se l’azienda riesce a chiudere totalmente la filiera può essere competitiva sul mercato», spiega ancora Rosario, tra le altre cose consigliere nazionale di Assipan: «L’obiettivo è quello di creare società cooperative o consortili per proporre il prodotto al mercato in maniera unita, altrimenti saremo solo delle aziende che vanno in direzioni diverse. Lavorando unitariamente si può riuscire a far crescere ancora di più questo mercato». Nel suo stesso paese c’è addirittura chi, sui grani antichi, ha impostato un vero e proprio modello turistico, un resort in cui i visitatori, raccolgono il grano, lo macinano e ne fanno una farina che diventerà la pasta per la cena: «Ai visitatori, stanchi della vita frenetica, interessa di nuovo la bellezza delle cose semplici e genuine, la lentezza di un ritorno al passato e alle origini che è diventato il tema portante della nostra struttura», spiega Maurizio Tedesco, proprietario del resort: «L’esperienza della pasta realizzata con la farina dei grani antichi è qualcosa che avvicina l’uomo alla natura e di questo i nostri visitatori sono contenti».

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Dopo la pandemia che ha imposto uno stop forzato, in molti hanno fatto una scelta di vita, decidendo di fermarsi e riscoprire i propri luoghi di origine, magari andando a coltivare quelle terre che fra qualche anno, se lasciate incolte, diverranno deserto, come prospettano gli esperti che mettono la Sicilia ai primi posti per desertificazione. Tra coloro che hanno deciso di tornare al passato c’è anche Ausilia Borzì, di Serafica, che nella sua Nicolosi, alle pendici dell’Etna, ha bonificato dei terreni incolti per seminare segale irmana: «Abbiamo recuperato della semenza da un contadino riscoprendo questo cereale e con l’aiuto dell’università di Catania e del Comune di Nicolosi, abbiamo sperimentato la coltivazione della segale irmana, con grande successo. Adesso vendiamo la farina prodotta al dettaglio e ad alcune pizzerie d’eccellenza in tutta la Sicilia, riscontrando un apprezzamento sia da parte degli operatori del settore che dai loro clienti». Così tra i vini e gli olii l’azienda della famiglia di Ausilia adesso è diventata l’unica sull’Etna a produrre segale irmana, poi commercializzata.

 

Mentre gli imprenditori si arrovellano per rincorrere il mercato, dall’altro lato l’Europa ha perso di vista da anni gli obiettivi strategici, come spiega Maria Pia Piricò, imprenditrice agricola e vice presidente di Confagricoltura Sicilia: «Il grano duro oggi sconta una quotazione record, sicuramente soddisfacente per i produttori. Ma ciò è legato a un’eccezionale congiuntura internazionale. Non è la regola. Prezzi ben più bassi in passato, insieme alla politica europea del disaccoppiamento dei contributi dalle produzioni, hanno disincentivato molti agricoltori a investire per ottenere produzioni quantitativamente e qualitativamente adeguate, incentivandone altri a ridurre l’impegno economico al minimo sindacale per conseguire il contributo europeo».

 

Secondo Piricò il prezzo del grano moderno è quello che doveva essere il prezzo giusto da sempre, con gli agricoltori che sperano non sia soltanto una bolla ma finalmente venga retribuito il giusto un prodotto la cui scarsa remunerabilità ha convinto molti a gettare la spugna.

 

Dall’altro lato, l’aumento del prezzo del grano moderno e in misura minore dei prodotti fatti con grani antichi potrebbe ridurre ancora il gap tra i due mondi, assottigliando la differenza e spingendo ancor di più le vecchie colture sul mercato.