Cos’hanno in comune la guerra contro l’occupante francese e le lotte partigiane? Il traduttore dello scrittore italiano spiega perché il racconto dell’antifascismo ha conquistato così tanti lettori nel paese Mediterraneo

Dai tetti della Casbah di Algeri domina il mare. Sembra abbracciare o strozzare una città la cui vocazione naturalmente mediterranea è rimasta in parte interrotta. Il più grande porto africano, Algiers la blanche, la bianca città coloniale francese, ha confinato la Kasbah sempre più in alto, e il resto delle colline di Algeri guardano al mare come un unico, grande orizzonte. «Il mare ad Algeri è vicino, ma non così prossimo» notava la storica e giornalista Paola Caridi al recente Salone Internazionale del Libro di Algeri, il Salone più grande d’Africa, che ha avuto l’Italia come ospite d’onore. «E noi, dove ci siamo persi?» chiedeva al pubblico e ai suoi interlocutori, scrittori, editori, traduttori italiani e algerini. 

 

Il riferimento è a quel filo di autentico, pragmatico sostegno che intellettuali e militanti della sinistra italiana hanno teso alla causa di liberazione anticoloniale algerina tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Lo stesso filo della nostra lotta antifascista, che cercava compimento in un altrove così vicino e così lontano, in solidarietà dei popoli oppressi. Poi quel filo si è spezzato, complice anche la timida, quando non del tutto assente, autocritica del proprio passato coloniale. Ma si può ancora cercare, ricreare, tendere, tradurre «con la stessa intensità di sguardo di sessant’anni fa», domanda Caridi?

 

Da questa vista azzurra di cielo e di mare, ancor più lontane sembrano le Langhe piemontesi, in quell’Italia della prima metà del Novecento, della guerra e del dopoguerra che lo scrittore Cesare Pavese ha narrato nei suoi racconti brevi. Eppure proprio quelle Langhe, e la città di Torino, tramite «la lingua bellissima» sono entrate prima nel cuore del traduttore algerino Walid Grine e poi in quello di molti lettori che vi si sono riconosciuti. La raccolta in arabo che propone alcuni dei suoi racconti prende il titolo non a caso da “Nel caffè della stazione” (Fi Maqhwe al-Mahatta), quasi a rilanciare fin dalla copertina il nesso con gli elementi che avvicinano i due paesi, tra le due sponde, come il caffé.

 

Ma per Grine è con il racconto “25 luglio”, con l’inizio della guerra partigiana in Piemonte e in Italia, che è suonata la campana, un riconoscimento a cui voler dare nuova forma nella sua lingua madre.

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«È per noi molto interessante: lo scrittore piemontese è un testimone diretto di questo inizio e lo racconta senza illusioni. Il narratore, che è Pavese stesso, sa che la lotta contro i fascisti e i nazisti sarà durissima», dice Grine: «Il racconto, le scene che fanno da sfondo alla lotta partigiana sono per me un racconto algerino. La lotta, che Pavese non ha combattuto prendendo in mano le armi come altri, è stata la lotta di liberazione nazionale dall’occupazione nazi-fascista. Noi lo capiamo benissimo, abbiamo combattuto per la nostra indipendenza dal colonialismo francese. E a sostenerla abbiamo avuto al nostro fianco gli intellettuali italiani che erano stati partigiani. Si sono identificati con la nostra guerra perché capivano cosa significasse giustizia, oppressione. È quello che ho sentito nel tradurre Pavese in arabo».

 

Quest’anno ricorrono i sessant’anni di indipendenza algerina e ancora sono tanti i momenti in cui si celebra la vicinanza italiana al paese nordafricano. Grine ricorda Giangiacomo Feltrinelli al servizio della causa algerina. L’editore milanese aveva mandato una circolare ai suoi librai per raccogliere medicinali per gli algerini e nel 1961 pubblicava in lingua francese un libro censurato dalla vicina europea, “Les Algeriens en guerre”, che nel paese oltralpe potrà essere letto solo dopo il luglio 1962. Il percorso che attraversa Grine tramite le parole di Pavese è ancor più vasto, come i paesaggi della sua infanzia: la precarietà delle relazioni amorose e le separazioni in “Fine d’agosto”, “D’estate”, “Gli anni”; la dura condizione economica e sociale dei braccianti agricoli de “Nel caffé della stazione”; lo sfruttamento lavorativo e le classi antagoniste in “Lavorare è un piacere”. Tramite questi racconti una traccia è costante: «C’è spesso nei racconti di Pavese la presenza forte del sole, sia dolce sia che brucia la pelle, la gioia di vederlo spuntare, anche se l’autore racconta una storia malinconica. Il sole è un punto in comune con la mia Algeria, dove abbiamo giorni così assolati: a volte è bello, altre volte fa male. L’amore di Pavese per il sole mi ha colpito ancor prima come lettore, come algerino che si lascia bagnare di sole camminando per le strade di Algeri, in primavera, nel mio caso pensando alle parole in arabo per rendere la lingua di Pavese».

 

Ed è a partire dalla ricerca di un Mediterraneo comune e di nuove traduzioni che travalicano i decenni, i classici e i confini, che diverse case editrici e molti autori hanno risposto alla chiamata dell’Istituto Italiano di Cultura, responsabile del programma culturale come Paese ospite al Salone del Libro di Algeri.

 

Ne è prova Carolina Paolicchi con la sua piccola casa editrice “Astarte”, nata a Pisa nel 2019, che ha tradotto “Algeri, il Grido” di Samir Toumi. Lo scrittore algerino narra il rapporto con una città difficile - come difficili sono tutte le città del Mediterraneo - con la costante attrazione e repulsione, la necessità di tornare e di scappare. «Parliamo di Mediterraneo in tutte le sue forme» dice Paolicchi, «vediamo le sponde di questo mare come una città continua, che nasce e fa il giro lungo tutte le sponde, trovando delle somiglianze e delle differenze tramite le voci che riempiono il nostro catalogo».

 

Dalla sua Kreutzville alla Kasbah, Lorenzo Flabbi, traduttore italiano di Annie Ernaux ma anche di Kaouther Adimi con “La libreria della Rue Charras” (L’Orma Editore), porta sottobraccio di ritorno in Italia una scrittrice algerina mai tradotta, Hajer Bali. E il pensiero, lo scambio si fanno pure suono, come nel podcast “Limone Lunare” che contiene i frutti della collaborazione di Giulia Crisci, curatrice d’arte palermitana, e Maya Oubadi, editrice della rivista femminista algerina “La Place”. Nel loro dialogo, l’attivismo e il femminismo diventano un terreno comune: spaziano da Danilo Dolci a Frantz Fanon ma per superarli, cercando nella presa di parola delle donne della rivoluzione algerina del 2019, l’hirak, il punto di riflessione e azione, la nuova vera liberazione. Del decennio nero in Algeria ha scritto invece il giornalista Adlène Meddi, nel romanzo “1994” tradotto da Hopefulmonster in Italia.

 

Di quegli anni di terrore, il traduttore di Pavese Walid Grine ricorda soltanto gli spari e le esplosioni continue, perché era ancora bambino e poi adolescente quando l’esercito nazionale algerino combatteva per i tetti e le strade di Algeri con gli antagonisti jihadisti. E non ci sono solo i racconti di Pavese tra i suoi interessi: per esempio, ha tradotto anche diversi saggi per riviste letterarie nel mondo arabo, dall’Algeria all’Egitto all’Arabia Saudita, su Pier Paolo Pasolini.

 

Forse l’intensità di sguardo che sembrava assente si sta già incarnando in molteplici forme a cui prestare ascolto. E mentre Walid Grine cerca in Pavese le risonanze storiche, quel mare sullo sfondo bussa alla porta dei vicini, inondandoli di nuove traduzioni, e di nuovi orizzonti.