Il saluto di Luca Bottura, che inizia una nuova avventura editoriale, ai nostri lettori. «Dalla prossima settimana terrò in mano da lettore questo giornale con la stessa affezione e orgoglio che ho cercato di raccontare in questo commiato»

Nel 2017, quando cominciò la mia collaborazione con l’Espresso, ero certamente molto più giovane – ultimamente invecchio al ritmo dei cani – e un po’ meno affaticato. Come tutti, non avevo vissuto appieno il governo cosiddetto giallo-verde, quello cosiddetto giallo-rosso, quello cosiddetto dei giornaloni, una pandemia, una guerra, e altre vicende contingenti e/o personali che hanno recentemente affaticato la vita di tutti noi. Ma ero molto orgoglioso di planare fuori tempo massimo in una immaginaria Via Po, all’incrocio con via degli Apostoli di Sant’Eugenio, su un sentiero disseminato dal sapere di Giorgio Bocca, di Umberto Eco, di Camilla Cederna, del mio maestro Michele Serra, di tutte le firme che hanno reso grande questo giornale. Anzi, con un aggettivo che oggi si abusa ma talvolta calza a pieno, «necessario».

 

Nel frattempo sono cambiate altre cose, ad esempio il direttore e, in qualche modo, l’editore. Se n’è andato Marco Damilano, che mi aveva confermato stima e fiducia dopo il divorzio col quotidiano di riferimento, regalandomi sempre e comunque totale libertà, attenzione, sopportazione. Ed è arrivato, anzi: è rimasto, Lirio Abbate. Che ha ricevuto in eredità una squadra clamorosa e anche un bel pacchetto di grane, in primis gestire i ritardi del sottoscritto nella consegna dei pezzi. Esattamente com’era capitato con Alessandro Gilioli, che ora fa una Radio Popolare bellissima, Lirio e io ci siamo conosciuti mandandoci a quel Paese. E la colpa era mia, della mia agenda che somiglia a Guernica, della mia soglia di attenzione di poco inferiore a quella di un bambino dueenne. O di uno spettatore di Mario Giordano. Poi ha capito di trovarsi di fronte un disadattato quantomeno generoso, e ci siamo accolti e rispettati. Come non puoi rispettare, apprezzare, sostenere, chi di mestiere fa lo stuntman della verità. E parlo di lui. E di Marco, che ha scelto altre strade sempre affini a ciò che gli piace: sabotare la disinformazione con l’arma gentile dell’archivio, del buonsenso, del ragionamento.

 

A proposito di strade che si separano, questo riquadro garibaldino cessa oggi le sue pubblicazioni. Almeno a me, mancherà. Mi mancheranno i riscontri settimanali alle mie sciocchezze. Gli insulti sui social di chi non aveva capito, o capiva benissimo. Quella volta che mi scambiarono per Briatore a causa di una card di Facebook disegnata con malizia. Mi mancherà, non foss’altro perché l’ho realmente trattato come fosse casa mia, guadagnandomi spesso l’attenzione dei personaggi citati. Che spesso hanno citato me. In tribunale. Ci salutiamo, per motivi di intenso traffico editoriale e non per il timore che il vecchio Espresso possa prendere strade più comode e più lontane dalla propria Storia. Il dna di un giornale, banalmente, lo fa chi ne compita gli scritti. E finché gli scribi saranno questi, nessuna malagrazia o disattenzione editoriale potrà mai cambiare identità al giornale che tenete in mano. E che terrò in mano da lettore, dalla prossima settimana, con la stessa affezione e orgoglio che ho cercato di raccontare in questo commiato. Come credo dicano a Reykjavík: achent’annos, l’Espresso. E hasta la victoria, forse.