Sesso e identità. L’infanzia sotto l’apartheid. Il mondo fluido e inquieto durante la pandemia. I dipinti dell’artista sudafricana in una mostra imperdibile. «I miei quadri migliori sono quelli che ho realizzato in uno stato di tensione continua»

Un ragazzo (“D-Rection”, 1999) e una ragazza (“Turkish Girl”, 1999) nudi ci introducono nel “Desire”, nel desiderio espresso e mai nascosto di Marlene Dumas, prima stanza dell’imperdibile mostra che Palazzo Grassi le dedica fino all’8 gennaio del prossimo anno. Quel giovane uomo, che fissa il suo sesso in erezione senza prestare attenzione agli spettatori, appare quasi stupito dalla propria sessualità. E quella donna che tiene strette a sé le gambe, domina lo spazio, ci appare davanti anche lei senza pudore. Ci fissa come l’artista con i suoi grandi occhi di un grigio chiarissimo, come i suoi capelli ricci, per tutta la durata dell’intervista nel museo veneziano.

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Dumas è una delle artiste più influenti nel panorama artistico contemporaneo. Classe 1953, ha trascorso l’infanzia in Sudafrica, durante il regime dell’apartheid, prima di stabilirsi ad Amsterdam nel 1976, dove tutt’ora vive e lavora, principalmente con olio su tela e inchiostro su carta. «Nella pittura e attraverso di essa cerco di affrontare la rappresentazione della Storia in costante mutamento», afferma: «La mia pratica pittorica e poetica è radicata nella mia storia personale, nella mia stessa identità che incarna le divisioni culturali. Credo che l’essenza dell’arte non risieda nell’illustrare la vita o nel rispecchiarla, ma, per citare Bacon, nello scavare il mistero». Dipingere diventa quindi per lei “un sollievo”, «un atto fisico vero e proprio dove è difficile, se non impossibile, distinguere le pennellate e le loro diverse consistenze. I quadri migliori sono quelli che ho realizzato in uno stato di tensione continua, ma i lavori che amo di più sono quelli che ho dipinto velocemente, in uno stato di urgenza».

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Eccoli, sala dopo sala, a cominciare da “Awkward” (2018), due persone che cercano di toccarsi, due figure soprannaturali e profondamente umane, seguito da “About Heaven” (2001), “Tongues” (2018) e “The Gate” (2001), “Miss Pompadour” e “Fingers” (entrambi del 1999), questi ultimi due in omaggio al filosofo francese Hubert Damisch, il quale affermò che la bellezza è radicata nell’eccitazione sessuale. «Essere spogliati richiede particolarità e anche un certo grado d’imbarazzo, e il rapporto tra ciò che vediamo e ciò che sappiamo, come disse già John Berger, non è mai definito una volta per tutte», tiene a precisare Dumas. Il suo celebre “The Particularity of Nakedness”, del 1987, ne è l’esempio.

 

Prima ancora, sulle scale del bel palazzo della Pinault Collection, “fratello” di Punta della Dogana, regala romanticismo con “Kissed” (2018), un piccolo olio su tela grande più o meno come un foglio in formato A4, omaggio a “Una gita in campagna” di Jean Renoir, in cui mostra l’unico bacio del film che si riconosce nell’immagine solo da vicino, quando i colori chiari e quelli scuri si mescolano fino a formare la figura di una coppia. «È un’esposizione sulle storie d’amore e i loro diversi tipi di coppie, giovani e vecchie», continua l’artista nata a Città del Capo, protagonista della prima e più completa esposizione dedicatale nel nostro Paese. «È un’apertura sull’erotismo, sul tradimento, sull’alienazione, sull’inizio e la fine, sul lutto, sulle tensioni tra spirito e corpo, sulle parole e le immagini».

 

Per una così, che si esprime mediante la pittura figurativa, l’intera opera pittorica si articola intorno alla rappresentazione di figure e volti umani ritratti nelle loro emozioni più complesse e contraddittorie. Un lavoro immenso, coinvolgente, a tratti eccessivo e disturbante, «ma che si schiude nella tensione tra suggerimento e un’interpretazione che non è unica, ma molteplice. Ho riflettuto molto su ciò che lega le mie opere per trovare un titolo che riflettesse anche il mio stato d’animo e la mia percezione del mondo che mi circonda». E poi Dumas aggiunge: «Ho pensato al lockdown, al fatto di essere chiusa dentro casa, ai musei, al pubblico e a Palazzo Grassi che doveva essere aperto per accogliere questa mostra. Poi ho pensato alla parola “open”, aperto, e al modo in cui le mie pitture sono aperte a diverse interpretazioni».

 

Ecco, quindi, spiegato anche il titolo della mostra che ha scelto personalmente, “Marlene Dumas.open-end”, dove la parola “end”, fine, che nel contesto della pandemia ha avuto e ha le proprie implicazioni, «è al contempo fluido e melancolico». Un titolo che spinge a pensare, a cambiare il proprio punto di vista, ad apprezzare ancora di più le oltre 100 opere provenienti dalla Collezione Pinault, da musei internazionali e collezioni private scelte con attenzione da Caroline Bourgeois, tracciando così un percorso incentrato sulla produzione recente dell’artista, con una selezione di dipinti e disegni che vanno dal 1984 ad oggi, compreso un nucleo di opere realizzate ad hoc per Venezia. «Sono lavori nati di notte, spesso risolti in poche ore, talvolta in mesi», racconta la conservatrice della Pinault Collection, nonché curatrice di questa mostra.

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Dopo aver ascoltato il podcast realizzato con Chora Media (il catalogo, invece, è pubblicato in coedizione con Marsilio), constatiamo che l’artista sa essere una pittrice compulsiva e meditativa insieme e il suo è un ritmo poetico, a volte serrato o più arioso. Anni fa, come ricorda Bruno Racine, direttore e amministratore delegato di Palazzo Grassi-Punta della Dogana, Dumas disse che la pittura «era anacronistica, superata, oscena, decadente, arrogante e perfino stupida, imperturbabile», per poi aggiungere che era per questo che continuava a farla come una sorta di missione. Una maniera per superare, senza mai dimenticare, quella giovinezza passata sotto il regime dell’apartheid con la conseguente sensibilità «per la situazione dei dannati di questa terra, per tutti coloro che sono stati privati dei propri diritti in Congo, in Algeria e in Palestina».

 

Lo dimostra nei 28 inchiostro su carta disposti in griglie di cui è composta “Betrayal” (1994) con volti di galleristi, amici e persino nazisti, chiaro esempio del suo interesse alle persone come individui, in relazione alla categoria a cui sono stati assegnati, all’influenza di tale classificazione e sul modo in cui interagiscono. «In quei volti i sani sembrano un po’ pazzi, i pazzi sembrano sani di mente e tutti stanno cercando in un modo o nell’altro di sedurti. I loro occhi ti guardano direttamente, la forza dell’attrazione primitiva nasce dal riconoscimento, è l’immagine che si prostituisce e ti trovi obbligato a dire sì o no».

 

La sua è una sostanziale presa di posizione politico-morale contro il razzismo e la discriminazione sessuale per un “erotismo” che risponde alla propria urgenza verso forze di vita indisciplinate e possibilità contro formulazioni sistematiche sobrie. Eden, per lei, non è il paradiso, ma il nome del nipote ritratto due anni fa che ci fissa con uno sdegno rabbioso, poco distante da "Dead Marilyn” (2008), basata su una foto dell’autopsia della star pubblicata nel 1985 su un giornale olandese. «Se Andy Warhol le fece i migliori ritratti, superba e senza tempo, nelle immagini tristi e desolate successive alla sua morte vidi la fine del sogno americano», afferma.

 

Con Dumas, Dora Maar si prende finalmente una rivincita su Picasso che non la trattava di certo nel migliore dei modi e nel dipinto “The Woman who saw Picasso cry” (2008), realizzato da una foto di Man Ray, è più bella che mai, ritratta in primo piano con due occhi penetranti che trasmettono vicinanza e intimità. Tra baci, denti, labbra, uno zombie, un occhio, una donna che fuma e un’altra Marilyn - stavolta però in blu – raggiungiamo tre dipinti con tre persone a lei molto care, realizzati tutti nel 2012: Anna Magnani (“Mamma Roma”), Pier Paolo Pasolini (nell’omonimo disegno) e Susanna Colussi Pasolini (“Pasolini’s Mother”). Dumas ammira «il sensuale uso della luce e del buio» di Pasolini, «l’irrealismo narrativo dei suoi film, il modo in cui i suoi personaggi appaiono e scompaiono e il fatto che non si fidasse di sé stesso».

 

Particolare, l’insieme dei volti in “Underground” (1994), realizzati con la figlia Helena quando aveva cinque anni, quando decise di colorarli e truccarli a suo modo per ribellarsi al lavoro della sua madre, fatto solo con inchiostro bianco e nero. Oggi Helena è all’ottavo mese di gravidanza e si commuove quando guardano insieme “My Daughter” (2002), il suo unico cortometraggio realizzato quando era piccola. “See no Evil” (1991) ricorda come il male non è altro che il rovescio del bene e quest’ultimo ha una diversa accezione anche in “Snowwhite and the Next Generation”, in cui la bianchezza della protagonista, più che un indice di riconoscimento della più bella del reame, «è un’ideologia pericolosa e disperata se usata come categoria politica». Sala dopo sala, compaiono i ritratti di Baudelaire, Duval, Nefertiti, Genet, Wilde, quello fatto a sé stessa e quelli allo scrittore olandese Hafid Bouazza, che rinunciò alla religione islamica in cui crebbe, e a Romana Vrede, l’attore olandese di origini surinamesi che nel 2017 vinse il Theo d’Or come migliore protagonista femminile. 

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Spettacolari le tre opere nella 25esima sala: “The Making of”, “The Origin of Painting (The Double Room)” e “Time and Chimera”, immagine-simbolo della mostra. L’altezza di queste tele è cruciale (tre metri), perché consente all’artista di dipingere liberamente, senza inibizioni nei movimenti e dunque con una certa audacia, simile allo stile imprevedibile e al ritmo dei versi di Baudelaire di cui Dumas è affascinata «nella veemenza della poesia e nell’idea di traduzione». Ma le attenzioni, in chiusura, sono tutte per la morte di Céline (“The Death of the Author”, 2003) e per la foto di un volto (“Persona”, 2020) che si rifà a Rodin e che ci insegna, come le altre opere, che anche se si allude alla fine, anche se si introduce un tratto triste o malinconico, anche se si evoca un lutto, questo non significa per niente chiusura, anzi, il suo esatto contrario. «La morte dà significato alla fine, perché prima che giunge, non sappiamo ancora bene cosa stiamo facendo», conclude citando l’amato Pasolini.