Da una decina di anni il Partito democratico governa senza aver conquistato una vittoria nelle urne. Eppure una sconfitta avrebbe diversi aspetti positivi

Hasta la sconfitta siempre. Spiego. Da una decina d’anni, più o meno, il partito democratico governa senza aver vinto le elezioni. Un elemento aleatorio, la vittoria, in un combinato tra legge elettorale e democrazia parlamentare, ne convengo. Allora diciamola così: senza aver mai dato l’impressione di vincere. Però, man mano che i tempi maturano, l’idea di Letta di sposare il proporzionale assoluto e dunque di perdere le prossime elezioni, specie se manterrà quello che ha dichiarato, cioè di non volersi infilare in un governo da imbucato, mi pare una prospettiva non solo accettabile, ma quasi affascinante.

 

Per diversi motivi: il primo è che in Italia l’opposizione logora chi non la fa. Giorgia Meloni non ha idea di come si governa un Paese, non possiede classe dirigente, si metterà inevitabilmente - da persona commendevole qual è - nella mani della Destra appaltatrice italiana, un coacervo che normalmente spolpa lo spolpabile e poi implode. Dunque, trascorsi pochi mesi dalla maggioranza blindata a trazione nero-azzurra, torneremmo a votare. E forse la sinistra riformista stavolta la sfangherebbe.

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Il secondo motivo è che il trionfo delle destre renderebbe di fatto inutili i margini di manovra dei cespugli centristi. Metterebbe cioè fine alla grande bufala della necessità italiana di una sinistra moderata e riformista. Ora: più moderato e riformista del Pd cosa c’è? Fanfani? Letta smetterebbe dunque di dover tendere l’orecchio agli ultrà del centro egotico renziano e di quello muscolare calendiano, che peraltro, una volta blandamente sedato nell’ego, può essere un compagno di strada accettabilissimo. Il terzo e decisivo: i Cinque Stelle non esistono più. Esistono però i loro elettori. Che sono scalabili.

 

Perché il 15 per cento perso in quattro anni dagli sfanculatori è ovviamente finito a Fratelli d’Italia e altra fuffa antagonista, tipo quella di Paragone. Ne consegue che il 15% superstite viaggia nell’ambito progressista, come testimoniano i sondaggi: un Pd solitario salirebbe già oggi sopra al 23. Questo perché gli elettori del MoVimento sono meglio dei loro leader. Di tutti i loro leader. Sono meglio di Conte, che traccheggia su temi non negoziabili in base ai sondaggi, e che per rispondere sì o no a domande semplici impiega normalmente una mezz’ora. Ma poi non risponde. Sono meglio di Di Maio, che pure sta assumendo ragion di stato a tappe forzate e potrebbe essere un interlocutore decente, col suo movimento scisso, per chi voglia spargere un minimo di consapevolezza sulle macerie della rappresentatività.

 

Sono meglio di Di Battista, che non si capisce se sia fuori o dentro, con chi stia, quali input riceva, se dalla base movimentista o dai vertici quotidianisti. Ma resta un amabile venditore di slogan, il compagno con cui avresti a lungo vagheggiato la rivoluzione, alle Superiori, fumando insieme un bel cannone, per poi accorgerti che il fumo lo portavi sempre tu. E sono meglio di Dino Giarrusso, che giusto l’altro giorno ha annunciato l’ennesima diaspora per raccogliere i delusi. Di Cinque Stelle, ne resterà solo una. A quella, Letta potrà rivolgersi, dopo lo sconfitta. Non per governare, ma per capire se dietro alle urla c’è un po’ di politica da fare, e da seminare. Ma senza essere ricattabile. Né dai grillini, né da altri. Anche per questo, davvero, hasta la sconfitta siempre.