Alle prossime elezioni politiche saranno presenti candidati sponsorizzati da uomini condannati per mafia. Segno di una classe politica cinica che a parole celebra le vittime dei clan e poi fa accordi con chiunque

Dice bene il magistrato Alfredo Morvillo, il fratello di Francesca, uccisa assieme con il marito Giovanni Falcone il 23 maggio 1992: «A trent'anni dalle stragi la Sicilia è in mano a condannati per mafia». Non è una frase buttata lì per caso. È purtroppo lo specchio di un'attualità politica che non guarda al sacrificio delle vittime degli attentati di Capaci e via d'Amelio, ma riflette dopo tre decenni l'etica ancora sporca di politici che in Sicilia non riescono a tenere lontana la mafia e i suoi portatori d'acqua.

Paolo Borsellino diceva: «Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d'accordo». Ed è quello che sta accadendo oggi in diverse zone del nostro Paese, soprattutto alla vigilia della campagna elettorale, dove c'è ancora il pericolo che la mafia con la complicità di politici locali si infiltri e inquini le amministrazioni comunali e regionali.

Ci sono candidati del centro destra alle prossime elezioni amministrative di Palermo e a quelle regionali che "strizzano l'occhio" a personaggi condannati per mafia. Perché in campo è sceso a tessere relazioni e trattative con i partiti direttamente Marcello Dell'Utri, che sa muovere le pedine in questa area paludosa in cui si svolge la competizione elettorale, e si riconosce pure con quel mondo per il quale è stato condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa. E sulla stessa sponda politica si schiera un altro condannato definitivo per favoreggiamento alla mafia, Salvatore Cuffaro, e anche lui indica e dirige l'orchestra elettorale.
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A nulla vale l'etica e la pulizia dei partiti professata in convegni, cerimonie, dibattiti, saggistica e comparsate televisive. Il battersi per la doglianza il petto e dire "no alla mafia", si rivela un'impostura. Tutto sembra legarsi in questo teatro pirandelliano rappresentato da alcuni candidati e dai loro danti causa.

E così accanto alla candidatura di "facce pulite", in quello che dovrebbe essere il codice di autoregolamentazione dei partiti, ecco schierarsi pubblicamente al loro fianco "trainer" dal curriculum politico lungo quanto le centinaia di pagine che formano le motivazioni delle loro sentenze di condanna per mafia. E non provano alcuna vergogna a rimettere le mani sulla scena, come se fossero i pupari in un teatro di pupi.

Cinque anni fa venne lanciato un appello dal Viminale in occasione degli Stati generali dell'antimafia organizzati dal ministero della Giustizia, con il quale si chiedeva un «patto solenne tra i partiti per respingere il voto mafioso», che tanto ha inquinato il voto locale, in particolare nel Meridione dove è stata esponenziale la crescita del numero e dell'importanza degli scioglimenti dei comuni per mafia.

La Commissione antimafia di Rosy Bindi aveva poi concluso con una relazione in cui metteva in evidenza «la situazione di progressivo deterioramento delle condizioni di legalità in seno a molti enti locali, prevalentemente ma non esclusivamente meridionali, andata di pari passo con l'avanzare dei sintomi di una poco strategica "ritirata" dei partiti nazionali da molte zone del Paese, e con la conseguente proliferazione delle liste civiche come unica proposta politica in occasione delle elezioni amministrative».
Rivolgendosi ai candidati che "strizzano l'occhio" ai condannati per mafia ha fatto bene Morvillo a dir loro: «Voi con Falcone e Borsellino non avete nulla a che fare. Anzi, se avete buongusto, evitate di partecipare alle commemorazioni». L'amarezza spinge il cognato di Falcone a pensare che «certe morti sono stati inutili». La libidine del potere preme alcuni a stringere alleanze con chicchessia. Anche con il diavolo che nell'estate del 1992 ha scatenato l'inferno a Capaci e via D'Amelio, e molti politici, dopo 30 anni, sembrano, nei fatti, averlo dimenticato.