Raccontare il desiderio, il corpo, la violenza. Tre libri appena usciti fanno i conti, con fascino, con la complessità femminile

«Ti amo. Per poco non ti ho picchiata. Sei rannicchiata in un angolo, stai gridando, e io alzo una mano. Riesco ancora a vedere i tuoi occhi che si dilatano… La serata non era cominciata così. No. La nostra storia non era cominciata così». Si sono conosciuti in vacanza. Lui è uno studente di Arti visive, ma vuole diventare musicista; lei una donna che si porta dentro un dolore: da bambina non ha mai vissuto con i genitori, questioni di lavoro; ha vissuto la sua infanzia sentendosi abbandonata per ragioni oscure. Davanti a questa donna, lui è in soggezione: «Tu sei un continente inesplorato. Una terra che ancora non compare sulle carte. E in un certo senso per me sei il mondo».

Janice Pariat, scrittrice e poetessa indiana, nel suo romanzo “Le nove stanze del cuore” (Bompiani, best seller in India e in traduzione in dieci paesi), compone il ritratto di una donna senza nome, attraverso i racconti di nove personaggi che hanno avuto a che fare con lei: la protagonista è una donna che c’è sempre e non c’è mai. Il proliferare delle voci dice che ognuno non esiste di per sé: tutti noi siamo le nostre relazioni. La stratificazione dei punti di vista mostra come l'identità stessa di una persona non può essere imbrigliata in qualcosa di definitivo, ma ha bisogno di molte sfaccettature. Per raccontare una donna, c’è bisogno di una polifonia. Lei è la bambina che ha affascinato il suo insegnante di disegno per la precisione con cui costruisce gli origami, la stessa precisione con la quale coglie il trauma dell’uomo; è la studentessa con ginocchia forti che sa creare bellezza anche in una minuscola stanza in affitto ed è pronta ad affrontare cani rabbiosi per difendere un’amica; è la ragazza che insegna a un uomo a far rimbalzare i sassi sull’acqua e ha l’animo «aperto come il cielo»; è la scrittrice che sa amare le donne come gli uomini, e decide di sposarsi davanti a un bicchiere di vino. In ogni racconto, però, torna sempre il trauma dei genitori troppo assenti, quasi due estranei: la lacerazione di una radice che si traduce in un continuo e doloroso bisogno d’amore.

Cosa succede se la protagonista di una storia è un’adolescente che ha subito violenza sessuale? La giovane autrice argentina Belén López Peiró ha scritto un libro straziante, “Perché tornavi ogni estate” (La Nuova Frontiera). Al centro c’è la sofferenza di un giovane corpo, ma è una sofferenza indicibile – a cui il mondo stenta a credere, tanto più che l’accusato è lo zio, membro del ministero della Difesa di Buenos Aires -, e allora non solo bisogna trovare le parole esatte per raccontare quella violenza, ma anche le molteplici prospettive da cui guardarla. La sofferenza viene dei parenti che l’hanno ospitata in estate, ma le danno la colpa di quello che è successo; viene dall’atto formale di denuncia e il suo freddo linguaggio giuridico; dalla consapevolezza di non essersi ribellata e di sapere che la propria sfera sessuale sarà per sempre compromessa; la sofferenza viene dagli interrogatori e poi dal terrore di parlare.

È un libro di frammenti, dal ritmo sincopato, che accoglie le voci di tutti coloro che ruotano intorno alla violenza. La violenza che non si può accettare, ma va accerchiata, circoscritta, e si è sostituita alla persona che l’ha subita e denunciata, che ora è come una ferita pulsante nel cuore di una comunità. Quelli che non ci credono, quelli che hanno fatto finta di niente, quelli che se ne sono accorti, quelli che hanno relativizzato, quelli che difendono il molestatore e accusano la ragazza di cercare solo l’amore che non ha mai avuto da nessuno: il libro dà voce a tutti loro, sta in questo la sua originalità. Ma parlare della violenza, stratificando parole e testimonianze, la allontana, la mette in prospettiva. E fa emergere la ragazza che l’ha subita, che d’un tratto non è più solo una vittima, ma una donna di cui sappiamo dire molto di più oltre le molestie.

Anche Chelsea Hodson, scrittrice e artista americana, collaboratrice di Marina Abramovic, nei suoi saggi narrativi raccolti in “Stanotte sono un’altra” (Pidgin Edizioni) racconta sé stessa come un corpo. Un corpo che può essere detto in tanti modi differenti: attraverso il dolore, l’amore, il desiderio. «Quanto può sopportare un corpo. Quasi tutto». E ancora: «La mano di una persona può cambiare una vita – un palmo, un tocco». Quando sei una modella per gli altri sei davvero solo un corpo, a nessuno interessa che tu abbia fame o sete: importa solo che i vestiti cadano bene; eppure adesso che non lavora più come mannequin le mancano i modi in cui la toccavano sul set. Era il tocco lieve della cura che, per un percorso inaspettato, assomigliava a quello della madre nelle serate trascorse insieme davanti alla televisione quando era bambina. Il corpo ricorda, funziona per analogia: in mezzo nessuno l’ha più toccata così.

Il corpo può essere merce, soprattutto se fai la commessa da American Apparel e giri in bikini tra i vestiti che devi far provare ai clienti. Il corpo può essere la mappa del dolore, dunque dell’umanità di una persona: «Mi innamoravo di chiunque avesse una cicatrice sul viso». I saggi di Hodson, nel loro andamento non lineare, mettono in scena il rapporto ambiguo di una donna col proprio corpo che è il luogo bellissimo dietro il quale nascondere la propria fragilità e mostrarsi al mondo come invincibili. Ma è anche il crocevia del dolore per il futuro che non arriva, per la vita che deve prendere forma, per la violenza che chiedi ti venga inflitta affinché tu ti senta nel mondo. Hodson subisce violenza sessuale, si fa dare un pugno in faccia da un uomo, oppure se ne sta lì in mezzo a una stanza a subire il gioco crudele di roulette russa di pugnali che piovono dal soffitto. Per piangere, però, ha bisogno di far parte di una performance: il corpo mostra la sofferenza solo per strade laterali.

Leggere questi saggi è un viaggio nella dimensione polimorfica di una giovane donna che vuole essere desiderata, ricca, presente a tutte le feste; che fa la modella, la cameriera, l’ufficio stampa, l’artista, la quasi-prostituta; che vorrebbe essere un oggetto o un animale; che è superficiale e venale, ma anche profondissima. E ci cala nell’abissale polifonia che è l’essere donna e della quale troppo spesso ci dimentichiamo. Perché ci dimentichiamo della complessità dello sguardo con cui tutto chiede di essere guardato. In molti percorsi della letteratura contemporanea si scorge questo movimento prismatico: le donne si raccontano e chiedono di venir raccontate senza simmetria, senza forzature. Anche quando il trauma è uno, chiedono che lo si possa analizzare in molti modi diversi: perché dentro a quel trauma c’è una persona precisa che vuole essere vista. Le donne desiderano raccontarsi in mille sfaccettature che sfuggono alle definizioni, perché ogni donna è diversa da un’altra. Le parole uniche, le definizioni, sono sempre sfocate: generalizzando, non colgono l’essenza. Nella polifonia si nasconde la libertà, oltre qualsiasi stereotipo. Ecco perché la moltiplicazione dello sguardo è un atto politico.