L’aumento dei contagi nella città simbolo dell’economia del Dragone sta causando un rallentamento della crescita. E la guerra in Ucraina porta alla luce tutti i problemi nascosti da anni di crescita impetuosa

La Cina era un paese che, prima dell’invasione russa dell’Ucraina, guardava al futuro con un certo ottimismo; la ripresa delle economie mondiali dall’epidemia di Covid aveva restituito benzina alla fabbrica del mondo, il turismo e il consumo interno sostenevano la crescita, gli investimenti esteri continuavano ad arrivare, il suo comparto tecnologico sembrava non vedere una fine e anche la bolla immobiliare dovuta al quasi fallimento del gigante Evergrande sembrava essere stata posta sotto controllo.

 

Politicamente parlando Xi Jinping, come un vecchio rivoluzionario del Partito, si era messo la medaglia per aver combattuto la sua personale guerra contro la pandemia e procedeva spedito verso un terzo mandato come numero uno, nel quale immaginava di mettere in moto le grandi riforme per fare della Cina un paese di “moderata prosperità”.

 

Il Partito comunista pienamente in controllo aveva lanciato l’espressione “prosperità comune” per indicare una strada ben precisa: all’accumulazione deve seguire una redistribuzione e a dare l’esempio devono essere i più ricchi. Dall’altro lato il Partito aveva cominciato la battaglia contro il settore privato dell’economia, a partire dalle piattaforme, per riportare tutti all’interno dei bisogni del paese dati i chiari di luna geopolitici: autosufficienza, prima di tutto tecnologica.

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Poi è arrivata l’invasione dell’Ucraina, poi si sono registrate fughe di capitali, Pechino è finita nelle morsa di Usa e Unione europea e i loro tentativi di stanarla; Pechino ha retto - con fatica - a una pressione mediatica che la accusava di sostenere la Russia e non solo, di progettarne un sostegno economico e addirittura militare.

 

Infine è arrivata la sorpresa più sgradita di tutte: una recrudescenza del Covid a Shanghai, la città più internazionale, capitale economica e simbolo del business (per lo più privato) made in China. Ovvie le conseguenze economiche, ma a Shanghai è andata in scena - nelle retrovie - una battaglia politica tra una linea più lassista nella gestione dell’epidemia e il marchio di fabbrica del presidente Xi Jinping, ovvero la politica “Zero Covid” che vuole lockdown immediati ai minimi contagi. Solo che a Shanghai è saltato tutto: logistica, trasporti alle strutture di quarantena, cibo e medicine per chi era recluso a casa. Alle problematiche economiche si sono sommate quelle sociali, perché la protesta della popolazione è via via montata, per quanto limitata alle misure anti pandemiche.

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E a quel punto tutte le crepe nascoste nel procedere sicuro di Xi Jinping sono apparse più nitide. A marzo di quest’anno la dirigenza cinese aveva fissato come obiettivo di crescita il 5,5%, obiettivo più basso degli ultimi trent’anni ma in linea con la volontà di Pechino di trasformare la quantità in qualità. Qualche giorno fa però la somma di problematiche economiche uscite allo scoperto è stata sottolineata anche dal Fondo Monetario che nelle sue previsioni ha rivisto al ribasso la crescita cinese (al 4,8%) a causa «della rigorosa strategia di tolleranza zero adottata per il contenimento del coronavirus e della contrazione degli investimenti nel comparto immobiliare».

 

E questo riferimento al comparto immobiliare consente di mettere il dito nella piaga nell’idea attuale di crescita della leadership di Pechino. Quali sono infatti le leve che Pechino pensa di poter muovere per mantenere, in ogni caso, una crescita rilevante come quella del 5,5%? La leadership pensa a tre meccanismi, ovvero gli investimenti delle imprese, i consumi delle famiglie e del governo e le eccedenze commerciali.

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Secondo Daniel H. Rosen - che sul tema su Foreign Affairs, ha scritto un articolo dal titolo “La nuova era della crescita lenta cinese” - le manovre cinesi non saranno sufficienti perché quando in Cina, ad esempio, si parla di investimenti «quasi la metà di tutta la crescita degli investimenti delle imprese negli ultimi anni è stata correlata al settore immobiliare». Un settore che dopo il caso Evergrande è quasi congelato e ha finito per creare un meccanismo che non consente spesa neanche alle amministrazioni locali.

 

Sul consumo interno Rosen sottolinea che «i consumi delle famiglie e dei governi combinati dovrebbero aumentare di circa 3,5 punti percentuali nel 2022 verso l’obiettivo di crescita del 5,5%. Ma con quasi 100 milioni di consumatori in isolamento a causa delle epidemie di Covid, l’attività di vendita al dettaglio è bloccata».

 

Per quanto riguarda il disavanzo commerciale cinese, le cose non sarebbero tanto più positive, considerando che le esportazioni «già ai massimi storici grazie alle condizioni irripetibili prodotte dalla pandemia», non è detto che debbano ripetere gli exploit recenti, specie a causa di una situazione geopolitica nuova, la guerra in Ucraina, che incide sui prezzi e sui costi di importazione anche della Cina.

 

E nel settore del lavoro non va molto meglio, nonostante incentivi alle aziende e sussidi che il governo eroga in ogni fase di lockdown continuato; le aziende tecnologiche, martellate da multe e controlli serrati, dicono di “ristrutturare” ma in realtà stanno tagliando moltissima forza lavoro. Analogamente sta accadendo per le piattaforme. Anche per questo motivo il Partito ha bloccato alcune riforme che dovevano partire a breve: la sperimentazione di una tassa sulla proprietà della casa (per la prima volta nella storia della Repubblica popolare) e una riforma delle pensioni che avrebbe innalzato l’età pensionabile (al momento 60 anni per gli uomini, 55 per le donne). Tutto rimandato, così come pare dimenticata per ora la “prosperità comune”, sparita dai comunicati ufficiali degli organi legislativi ed esecutivi del paese e perfino dai discorsi di Xi Jinping riportati dai media di Stato. Per Kyodo News, l’agenzia di stampa giapponese, l’accantonamento della “prosperità comune” non sarebbe casuale e non sarebbe espressione della volontà diretta di Xi Jinping: secondo una fonte dell’agenzia, infatti, sarebbe stato il vicepremier Liu He, responsabile delle politiche economiche e finanziarie, a proporre a Xi di sospendere la promozione del piano redistributivo. Anche perché nel frattempo, a guerra in Ucraina iniziata, in Cina si è registrato un fenomeno particolare che secondo l’Istituto della finanza internazionale (Iif), un’associazione di istituzioni finanziarie, sarebbe stato addirittura di natura epocale, ovvero un deflusso «senza precedenti» di capitali dalla Cina. La tempistica dei deflussi in coincidenza con l’invasione dell’Ucraina «suggerisce che gli investitori esteri potrebbe guardare alla Cina sotto una nuova luce, anche se è prematuro trarre conclusioni definitive», afferma l’Iif sulla base dei dati osservati. Il timore dei capitali stranieri è che la Cina finisca per essere colpita da sanzioni tanto quanto la Russia.

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Infine il Covid a Shanghai, il cui prolungato blocco (da ormai tre settimane) potrebbe ridurre il Pil poiché - secondo gli esperti - le rigide restrizioni avrebbero iniziato a mettere a dura prova l’economia nazionale, anche in previsione di nuovi blocchi di altre città importanti, come Canton. Il quotidiano di Hong Kong South China Morning Post ha dato conto di una ricerca che utilizzando i dati del flusso di camion che coprono 315 città da gennaio 2019 a gennaio 2022, ha provato a prevedere l’impatto di un blocco di un mese a Shanghai. La conclusione: i flussi di camion collegati alla città, così come il reddito reale di Shanghai, diminuirebbero entrambi del 54%. «Il traffico di camion è un’utile indicazione dello stato di salute dell’economia cinese, con il trasporto di merci su strada che rappresenta il 73,8% del volume totale di merci nazionali nel 2020, secondo le statistiche del Ministero dei Trasporti».

 

Tra i crescenti disordini, i dipartimenti del governo centrale hanno emesso una serie di decreti a sostegno della logistica e delle forniture alle regioni colpite da focolai. L’11 aprile il Consiglio di Stato ha emanato una serie di linee guida volte a garantire i flussi logistici, seguite da misure dettagliate da parte delle autorità stradali, ferroviarie e aeronautiche. Come riportato dalla rivista economica nazionale Caixin, il 12 aprile sono state riaperte 162 uscite autostradali e 81 centri di servizio precedentemente chiusi per il controllo del virus. Le autorità locali di Zhejiang e Jiangsu, inoltre, «hanno istituito centri di trasferimento per testare i modi in cui i camion merci interurbani consegnano merci senza contatto diretto per ridurre i rischi di infezione». Il 16 aprile il viceministro delle Finanze Liao Min aveva inoltre affermato di aspettarsi che venissero emanate più politiche finanziarie per sostenere la ripresa dell’industria logistica del paese. Altri però sono ottimisti, come ad esempio le società di e-commerce che hanno visto un aumento del proprio giro d’affari. Rimane la sensazione, però, che il paese sia in forte difficoltà e stia affrontando quella che il sinologo australiano Geremie Barmè ha definito una sorta di “crisi di nervi”, evidenziata - dopo tanti elogi per la sua lungimiranza - da una leadership che pare in difficoltà a coprire tutti i buchi che la crescita cinese ha nascosto nel tempo.