Quando si tratta di affrontare i costi politici ed economici delle riforme che il Pnrr, il buon senso e l’equità impongono, ecco che la responsabilità nazionale e le grandi maggioranze si squagliano

Ah, i condizionatori! A dicembre la legge di bilancio ha prorogato per il ’22 lo sconto fiscale (50-65 per cento) per chi installi macchine di ultima generazione, quelle che consumano meno energia: grazie al bonus, l’anno scorso le vendite sono schizzate all’insù del 40 per cento. Ecco. Tre mesi dopo la stessa parola è tornata nel vocabolario di governo, stavolta nell’angoscioso aut-aut del premier: «Preferiamo la pace o il condizionatore acceso tutta l’estate?». E giù polemiche.

Secondo alcuni la battuta fu infelice, secondo altri efficace: a giudicare dal clamore che l’ha accolta entrambi i giudizi appaiono fondati. Ma una battuta è una battuta e, azzeccata o improvvida, non dice mai tutto. E il tutto è che la guerra di Putin potrebbe costarci caro e portarci sacrifici, inverni al freddo ed estati al caldo, imprese in difficoltà, crescita congelata, austerità, magari pure le domeniche a piedi degli anni Settanta. Perché non basta gridare «pace, pace» per pagare meno un’ora di fresco. Il gas è un’arma di guerra.

Ogni scelta costa, sempre. Aver detto no a trivelle, nucleare e carbone, rigassificatori, gasdotti e pale eoliche ci fa forse un po’ più ambientalisti, ma ci lega mani e piedi a Putin che ci vende a caro prezzo il 40 per cento del gas che serve per mandare avanti imprese, luce, riscaldamento e i soliti condizionatori. I quali, è vero, sono nelle case di appena tre italiani su dieci (dato Istat), ma impazzano in supermercati, negozi, cinema, farmacie, uffici (e in automobile): 24 milioni di impianti che bruciano energia per giorni. Tanto che con due gradi in meno di riscaldamento e di raffreddamento, come deciso dal governo per gli uffici pubblici, si potranno risparmiare dai tre ai quattro miliardi di euro. Non è poco.

 

Tornare indietro, conquistare l’autonomia, ridurre il consumo di petrolio e derivati non sarà né semplice né rapido. Anche per scelte fatte in passato. Vent’anni fa producevamo venti miliardi di metri cubi di gas, oggi solo tre, e il buco lo colmiamo comprando in Russia. Ora si cerca di correre ai ripari, ma ci vorrà tempo. Una quarantina di imprenditori, per esempio, hanno chiesto al governo di poter ricominciare a cercare gas: ma, come rivela Alberto Clò che si occupa di energia da una vita, le loro domande sono bloccate al ministero della Transizione Ecologica, che pure sta lavorando per staccarci dal rubinetto di Putin.

 

Battuta per battuta, vale la pena ricordarne un’altra, pronunciata da Draghi quasi un anno fa, il 20 maggio, in risposta a Enrico Letta che evocava la possibilità di una patrimoniale: «Non è il momento di prendere i soldi ai cittadini, ma di darli». Il premier distribuiva 40 miliardi a imprese e famiglie e lo accolse un generale osanna, non solo perché tutti convenivano sulla necessità di aiutare chi aveva sofferto di più per la pandemia, ma soprattutto perché l’affermazione veniva interpretata come la conferma di una diffusa quanto comoda aspirazione italica: paghi lo Stato.

Oggi, alle prese con il gas, ecco Salvini, Conte e Meloni invocare all’unisono uno «scostamento di bilancio», formula magica che significa aumento del debito pubblico, come se il debito - e così lo Stato - non ci riguardasse, non fosse di tutti noi. E visto che dopo il Covid l’Ue ha cominciato a finanziare chi ne ha bisogno anche a fondo perduto, ecco crescere la richiesta di un Pnrr energetico, insomma che altri paghino il gas per noi. Solo che chi dovrebbe aiutarci non si fida e chiede che prima l’Italia dimostri di spendere bene i soldi già avuti.

E qui cominciano i dolori perché quando si tratta di affrontare i costi politici ed economici delle riforme che il Pnrr, il buon senso e l’equità impongono, ecco che la responsabilità nazionale e le grandi maggioranze si squagliano: basta chiedere di adeguare un catasto fermo al dopoguerra; di rendere più efficiente il fisco; di liberare una concorrenza frenata da corporazioni, lobby, parassitismi; di sveltire la giustizia. Come con la lotta all’evasione fiscale: tutti la invocano, ma poi l’amministrazione non è messa in condizione nemmeno di incassare i crediti accumulati: ogni anno l’agenzia delle entrate registra 70 miliardi di crediti, ma riesce a portarne a casa solo una decina. Anche questi sono costi. E tocca alla politica distribuirne il peso tra i cittadini. Equamente.