Margherita Asta aveva dieci anni quando, nell’85, l’autobomba alla quale scampò il pm di Trapani Carlo Palermo uccise la madre e i due fratellini

Tra il 2 aprile 1985 e quello del 2022, ci sono le vite di Margherita Asta e Carlo Palermo. Entrambi, scampati per puro caso alla strage mafiosa di Pizzolungo, a Trapani, ma entrambi comunque vittime. Margherita quella mattina, perde nell’attentato la mamma Barbara e i fratellini gemelli di sei anni, Giuseppe e Salvatore, diretti a scuola. La loro auto finisce per fare da scudo a quella che trasporta il giudice Carlo Palermo, la vittima designata della bomba. Nonostante, l’inconveniente, gli attentatori non desistono, spingono un bottone e fanno esplodere una Fiat Uno carica di esplosivo. Un boato tremendo, lamiere contorte, la strada un cratere. Palermo rimane ferito e così gli agenti della sua scorta Raffaele Di Mercurio, Salvatore La Porta, Antonino Ruggirello, Rosario Maggio. Si salvano per miracolo mentre di Barbara Asta e dei due bambini, dei loro corpi, non resterà nulla, se non una chiazza di sangue sul muro di una villetta. «È sangue nostro quell

 

Margherita all’epoca aveva 10 anni, quella mattina per non fare tardi aveva accettato un passaggio da un’amica. È sopravvissuta anche lei come il giudice, nonostante la sua famiglia sia stata annientata, tra mille domande, senza un perché e un’adolescenza tutta da riscrivere con un padre troppo taciturno. «Lui diceva che la nostra è una ferita che sanguinerà sempre. Io non la vedo così. La cosa che più mi rammarica è quella di non aver mai parlato di come vivevamo quelle assenze, quel dolore. Parlavamo di mia madre e dei miei fratelli, ma non del dolore che provavamo. È la cosa che mi rimprovero di più», racconta Margherita che oggi è un’attivista di Libera e in un libro, “Sola con te in un futuro aprile”, scritto a quattro mani con la giornalista Michela Gargiulo, uscito nel 2015 e da poco in una nuova edizione di Fandango, ripercorre la sua storia dopo quel 2 aprile, alla ricerca della verità per una strage ignorata da molti e considerata di serie B. Eppure come verrà appurato più tardi, la miscela di esplosivo usata a Pizzolungo è la stessa del mancato attentato all’Addaura ai danni di Giovanni Falcone nel 1989.

 

Quelli sono gli anni, in cui la mafia affila i denti, si prepara alle grandi stragi del 1992 e agli attentati del 1993, e in un’escalation di sparatorie e morti, fa capire che è meglio non mettersi contro. Così giornalisti, magistrati, poliziotti troppo intraprendenti, membri della società civile diventano obiettivo di una mattanza che non risparmia neanche i bambini. Poi ci sono quei due giudici a Palermo, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che con il loro maxiprocesso stanno per portare alla sbarra 475 imputati tra boss e gregari di Cosa Nostra, con 438 capi di imputazioni, tra cui 120 omicidi. Dietro le sbarre compariranno l’anno successivo tutti i pezzi grossi della mafia siciliana: Leoluca Bagarella, Pippo Calò, Luciano Liggio, Michele Greco, Mariano Agate. Il maxiprocesso chiude uno dei libri della storia siciliana. Pizzolungo, invece resta un capitolo aperto.

 

Nei primi anni 2000, in due processi distinti, Totò Riina e Vincenzo Virga vengono individuati come mandanti della strage ma gli esecutori materiali sono stati assolti per non aver commesso il fatto, con sentenza passata in giudicato. «Nelle motivazioni dei giudici viene affermato che il movente della strage di Pizzolungo risiede nella forza che ha la mafia nello strutturare collusioni con settori importanti dello Stato», sottolinea Margherita Asta.

 

Così, di processo in processo, ai mandanti si sono aggiunti i nomi di Antonio Madonia e Balduccio Di Maggio che avrebbero partecipato all’organizzazione della strage. Il libro si ferma lì, ma c’è ancora una corte che potrebbe scrivere la parola fine a questa storia. Lo scorso novembre, il capomafia dell’Acquasanta di Palermo, Vincenzo Galatolo, è stato condannato, in primo grado, a trent’anni grazie alla testimonianza di una figlia ribelle che lo ha accusato di essere anche lui mandante della strage di Pizzolungo. «Quest’ulteriore condanna a Caltanissetta, collega la strage di Pizzolungo a tutto quella che era la strategia degli anni ’80 e ’90 della mafia. È importante per fare definitiva chiarezza. Oggi, anche grazie alla testimone di giustizia, sappiamo che a casa Galatolo si decideva molto delle strategie mafiose e da lì partivano gli ordini». Ma finché non saranno esauriti tutti i gradi di giudizio e la sentenza non sarà passata in giudicato, Margherita mostra prudenza e pazienza. «Sono sentenze che servono a me, per rendere giustizia ai miei cari, ma anche, e soprattutto a Carlo Palermo, di cui sembra non ricordarsi nessuno, eppure era lui la vittima designata», rammenta Asta che parla di questa storia con la missione di chi è rimasta sola a poterne dare testimonianza diretta. Anche suo padre non c’è più, morto giovanissimo per problemi cardiaci.

Ma perché doveva morire Carlo Palermo? Il giudice era arrivato a Trapani, dopo aver condotto dalla metà degli anni ’70 delle indagini che a Trento avevano svelato un traffico di armi e droga che vedevano coinvolti trafficanti turchi, uomini della mafia siciliana operanti al nord, pezzi dello Stato deviati e massoneria. Nella lente di ingrandimento finisce anche l’allora premier Bettino Craxi che infastidito presenta un esposto al Consiglio superiore della magistratura. Dopodiché l’indagine viene assegnata ad altro magistrato e Palermo messo da parte. Nasce così l’idea del trasferimento in Sicilia dove le sue indagini lo avevano già condotto e per continuare il lavoro di Giangiacomo Ciaccio Montaldo, il magistrato ucciso nel 1983. I due si erano scambiati informazioni preziose pochi giorni prima dell’agguato a Ciaccio Montalto.

È il destino che fa incrociare le vite di Margherita e del giudice Palermo. Ma se dopo l’attentato Margherita, da adolescente curiosa si trasforma in un’attivista consapevole, il giudice sprofonda nel senso di colpa che lo spinge ad un isolamento prolungato e forse mai finito, nonostante la scelta dell’avvocatura. «Ho preferito pagare in silenzio la pena della sopravvivenza e del doloroso abbandono della magistratura», scrive in una lettera pubblicata in calce al libro. «Ma lui che colpa ha?», si chiede Margherita che negli anni ha ricercato più volte un incontro con il solo che porta ancora nelle orecchie il boato dell’esplosione. Nel 2006, grazie all’intervento di Don Luigi Ciotti, l’anima di Libera, i due si incontrarono a Trento. «Fu un incontro davvero emozionante».

 

Oggi sul luogo della strage sorge una statua in bronzo fortemente voluta, e pagata, dalla famiglia Asta, raffigurante Barbara che abbraccia i suoi due figlioletti. «Fino a qualche anno fa la strage non veniva ricordata», ricorda Margherita. «Lì hanno persino tentato di costruire uno stabilimento balneare, è stato un pugno allo stomaco». Il progetto poi bloccato, ha lasciato spazio alla realizzazione di un parco giochi intitolato “Non ti scordar di me”, come il fiore che è una promessa d’amore. «Dal 2008, ogni 2 aprile, insieme a Libera, al Comune di Erice, alle scuole organizziamo questo momento di memoria che non è fine a se stessa, in ricordo dei miei familiari e tutte le vittime, affinché il sacrificio non sia vano».

 

Nonostante tutto, fin dal 2 aprile 1985 quella di Margherita sembra una storia che parla di futuro, di un riscatto voluto per un’adolescente che non si è abbandonata alla rabbia e al dolore. E forse il momento più nitido di questa rinascita è il giorno del suo matrimonio con Enrico, nel 2011, quando ad accompagnarla all’altare ci sono Don Luigi Ciotti e il fratello nato dal secondo matrimonio del padre con la signora Antonina, Giuseppe Salvatore, proprio come i fratellini scomparsi. Un nome pesante che però segna una continuità tra il prima e il dopo. «Mio padre sognava di portarmi all’altare, lo aveva detto in un’intervista, ma purtroppo è morto otto anni dopo la strage», racconta Margherita. «Si è risposato quasi subito, ma non è stato un voltare pagina. Non ha messo un muro tra il prima e il dopo, tant’è vero che ancora oggi nella nostra casa di famiglia ci sono le foto di mia madre e dei miei fratelli e Antonina è stata un’amica, una compagna sincera, che mi ha accompagnato nella crescita».

In questa storia colpisce il tempo, l’incrocio degli elementi che è in grado di smontare e rimontare le vicende a piacimento. Essere nel luogo designato di una strage nel momento  in cu si compie, la mamma e i fratellini nati e morti nello stesso giorno, una nuova famiglia che si forma ma che rimane così ancorata al passato, un fratello che porta il nome di quei due bambini svaniti in una mattina di aprile. La Sicilia è una terra piena di bellezza e contraddizioni, proprio come questa storia da molti dimenticata. «Pensi che a Trapani il problema della gente, non era la strage, ma che Nunzio Asta si risposasse. Io lo vedevo sereno e credo che sia stata una scelta dettata per ridarsi e ridarmi una famiglia, quella che ci era stata strappata in un solo istante».