Squilli a vuoto, telefonate concitate, comunicazioni difficili, mentre tv e siti aggiornano la mappa dell’orrore. L’angoscia di familiari e amici, i contatti tra chi è in salvo e chi è rimasto in zona di guerra. Diario intimo di una tragedia

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Oksana è in fin di vita. Dopo giorni senza avere notizie, Irina Gibert ha appena saputo che una delle sue più care amiche non vedrà la fine di questa guerra.

«È in stato vegetativo», racconta mentre trattiene il respiro. «Me lo ha detto suo figlio Yaroslav, il villaggio vicino a Kiev in cui si era rifugiata è stato bombardato. Ora è in ospedale dove c’è il caos totale, tra sirene, feriti e morti che non smettono di arrivare», continua a raccontare Irina Gibert, giornalista che vive a Lione, in Francia, dov’è arrivata nel 2005.

Oksana ha la sua stessa età, 42 anni. Era uscita a fare la spesa, non è più tornata a casa. Suo figlio Yaroslav, 25 anni, è rimasto a Kiev «pronto a difendere la patria», come ha chiesto il presidente Zelensky a tutti gli uomini tra i 18 e i 60 anni.

Irina Gilber ha chiuso la telefonata con Yaroslav provando, ancora una volta, rabbia, impotenza e senso di colpa. Questi sono i sentimenti, i più forti, che la guerra di Putin ha scatenato nei cittadini di origine ucraina che vedono sgretolarsi in macerie la loro terra, dove vivono ancora genitori, parenti e amici. La vedono da un’Europa mai stata così lontana: le loro giornate sono, come il loro Paese, senza pace. Ore trascorse attaccati a un telefono a cui dall’altra parte, in un attimo, nessuno potrebbe più rispondere.

«Siete vivi?»: ogni istante la stessa domanda, un ritornello amaro mentre scorrono, immagini e cronache di un orrore che non si placa.

«Poco prima che Putin attaccasse l’Ucraina, ho implorato i miei parenti e amici di andarsene», continua Irina Gibert. «Ho detto a mia cugina che vive a Kiev ed è incinta di nove mesi di venire in Francia, ma nessuno lì credeva che Putin arrivasse a questo, pensavano tutti che fossero solo minacce, io invece mi aspettavo il peggio».

Sua cugina si tiene la pancia, sta per partorire ed è sotto shock da quando ha visto le immagini dell’ospedale pediatrico di Mariupol, nel sudest dell’Ucraina, bombardato: «Sono disperata, non so cosa fare, cosa succederà?»: queste le parole che continua a ripeterle al telefono. «Cerco di rassicurarla - dice Irina – ma ho paura. Io cosa posso fare? È una domanda che non mi lascia scampo».

Elena, un’altra sua cara amica, viveva a Irpin, sobborgo ad ovest di Kiev. Era un quartiere moderno costruito negli ultimi anni. Era, prima di essere pesantemente bombardato e distrutto dai russi. Elena è rimasta nel suo appartamento fino all’ultimo secondo, fino a quando sull’edificio non si è schiantata una bomba. Ha preso allora suo figlio tra le braccia e ha iniziato a correre verso la stazione del treno: «Mi ha scritto all’alba dalla stazione dove c’era una lunga coda di civili. Quando è entrata nel treno la stazione è stata bombardata». Il treno di Elena non è mai partito, i militari ucraini lo hanno evacuato e le persone sono state portate via con gli autobus. «C’erano anziani, bambini, persone disabili», continua Irina Gibert, «Elena e suo figlio sono stati accolti da una famiglia in un villaggio nell’Ovest dell’Ucraina ma lei da quel giorno non parla quasi più, dice di non avere parole per quello che ha vissuto».

Elena solo tre mesi fa aveva finito di pagare il mutuo, la sua casa potrebbe non esistere più. «Ci sentiamo in colpa perché noi siamo al sicuro. I miei figli mi fanno tante domande e a loro racconto che i bambini dei nostri amici, con cui sono cresciuti, dormono vestiti al gelo nelle cantine, tanti si sono ammalati. Li ho visti nascere ed è come se fossero figli miei, hanno smesso di parlare, stanno accumulando tutto, queste bombe sono entrare nella loro coscienza», spiega Irina Gibert.

Gli ucraini si uniscono anche in Europa, spediscono aiuti umanitari e cercano di fare una corretta informazione, per fermare negazionismo e propaganda: «Qualcuno mi ha detto che le immagini di morte e distruzione che circolano sono solo montaggi. Questa è, anche, una guerra all’interno di molte famiglie, che hanno una parte che vive in Ucraina e l’altra in Russia, e sono ora profondamente divise».

Irina Gibert è convinta che «se l’Ucraina sarà sconfitta, sarà sconfitta anche l’Europa, perché Putin non si fermerà. E gli ucraini non perdoneranno».

Ha i genitori a Kiev Natalia Kadenko, che dal 2008 vive e lavora nella città di Delf, nel sud dei Paesi Bassi, dov’è post-dottoranda ed esperta di sicurezza informatica presso la facoltà di Tecnologia, Politica e Management dell’università TU Delft. Sua madre e suo padre sentono le bombe dal loro appartamento, ma non vogliono lasciarlo: «C’è un rifugio antiaereo ma è lontano e così sia loro che i vicini hanno trovato rifugio nel seminterrato ma sono anziani, non riescono a salire e a scendere le scale continuamente». Anche Natalia Kadenko vive attaccata al cellulare che tiene sempre in mano, gli occhiali da vista incorniciano occhi di lacrime a fatica sospese. «La batteria del mio telefono è sempre scarica, vivo con il terrore che un missile possa colpire il loro appartamento. Sono stati informati, come tutti, su come comportarsi se la casa dovesse crollare o se ci fosse un attacco nucleare o chimico. Tutto può accadere, Putin sta commettendo crimini di guerra, genocidi».

La guerra in Ucraina non è cominciata adesso, è iniziata nel 2014 ed è andata avanti senza sosta e Natalia Kadenko l’ha vista da vicino, suo padre viene dalla regione di Donetsk dove il conflitto ha fatto almeno 14mila morti. Dopo le rivoluzionarie proteste di piazza iniziate a Kiev nel 2013, che hanno portato alla deposizione nel febbraio 2014 del presidente Janukovič, Mosca ha invaso e annesso la Crimea e sostenuto nelle regioni orientali i movimenti separatisti filorussi che hanno preso il controllo dichiarando l’indipendenza della Repubblica Popolare di Lugansk e della Repubblica Popolare di Donetsk. «Mia madre è più preoccupata per la prospettiva di vivere sotto l'occupazione russa che per i bombardamenti», spiega Natalia Kadenko che si chiede se alla Russia sarà permesso di stabilire una sorta di dominio sul territorio ucraino, come già succede nel sud del Paese: «Lì sono arrivati ​​con le liste degli omicidi, con l’elenco delle persone da imprigionare», spiega Natalia Kadenko, un’ucraina che si sente cittadina europea, anche lei è convinta che l’Europa fallirà, almeno moralmente, se resterà a guardare il suo Paese «attaccato solo per aver scelto i valori che l'Europa sostiene di difendere».

«Mia madre è a Kiev con i mie due fratelli, sono tutti nascosti nel garage privato del palazzo di mia madre, fa molto freddo» racconta Oleksandra Molotkova, 35 anni, che vive in Spagna, a Barcellona, dal 2014 dove lavora come giornalista. «Quando sono al telefono con mia madre sento il suono delle sirene e lei attacca di corsa per correre nel garage. Io siedo davanti al telefono per ore ad aspettare che arrivi un suo messaggio che mi dica che sono ancora vivi. Scappano anche nel mezzo della notte, non esiste più il sonno, provano a dormire a turno».

Oleksandra Molotkova era Kiev sia nel 2004 quando è scoppiata la rivolta dopo le elezioni presidenziali che avevano visto la vittoria, esito di un voto che non rispondeva alle norme democratiche come denunciato dall’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), del premier uscente Victor Janukovič, candidato legato a Mosca. Era a Kiev anche nel 2014, parte della rivoluzione antirussa.

La lontananza è ora una gabbia dorata: «In questo momento cruciale per il mio Paese io non ci sono. E invece dovrei essere lì, a fare bombe molotov, il mio posto era nella resistenza», continua. «Mio fratello ha 32 anni ed è pronto a combattere, mia madre convive con la paura che questo accada. E io convivo con il terrore che loro siano uccisi e che io non possa neanche andare e vedere i corpi, dagli una degna sepoltura, salutarli per l’ultima volta». Le sue giornate sono scandite dai racconti drammatici dei suoi amici più cari: «Un bambino di una coppia di amici di 9 anni è stato ucciso, i genitori stavano andando a recuperare il corpo e sono stati uccisi anche loro», continua. «Il padre di una mia cara mica, che vive vicino a Kiev, ha avuto un infarto a causa dei bombardamenti ed è morto, hanno seppellito il corpo nel giardino di casa. Lei ha una bambina di cinque mesi e non hanno più cibo. In molte zone si raccoglie la neve per berla come acqua». Le persone pensavano di essere più al sicuro nei villaggi vicini, rispetto alla capitale Kiev, invece non è stato così, molte famiglie sono rimaste bloccate, i villaggi sono stati circondati dai soldati russi: «Non li hanno ancora uccisi ma li tengono in uno stato di terrore. Chi è sopravvissuto è rimasto senza cibo, acqua, medicine. I bambini stanno pagando il prezzo più alto, non passa un giorno per me senza lacrime», continua Oleksandra Molotkova che parla di un sentimento di «odio» verso la Russia che resterà: «i cittadini russi devono assumersi la responsabilità di aver sostenuto il regime».

Dal 24 febbraio sono stati 103 i bambini ucraini uccisi, secondo il procuratore generale ucraino Iryna Venediktova, e oltre 100 feriti.

«Quanto vale una vita umana, la vita di un bambino?», si chiede Tatiana Lecocq, 45 anni, vive a Lille, in Francia, dove è arrivata nel 1998 per continuare gli studi da interprete. È di Kharkiv, città martoriata da bombe e colpi di mortaio, dove i civili vengono colpiti appena escono dalle case. Era lì pochi giorni prima che la Russia invadesse l’Ucraina. «Mio padre, mio fratello e il resto della famiglia sono nella cantina della casa di mio padre a 40 chilometri della frontiera russa, avevo chiesto a mio fratello di far venire almeno i figli a Lille, ma lui credeva che non sarebbe successo», racconta. Anche per lei l’orologio si è fermato il 24 febbraio: «Non vivo più, non mangio più, prendo dei farmaci per riuscire a dormire qualche ora. Viviamo nell’angoscia più pura, proviamo rabbia, ci sentiamo vittime di un’ingiustizia, ma proviamo a mettere questi sentimenti da parte per agire e inviare aiuti umanitari».

Tatiana Lecocq punta il dito contro l’Unione Europea: «Doveva agire prima, integrare l’Ucraina e questo massacro si sarebbe evitato. Gli ucraini sono soli per aver scelto la democrazia. Sono fiera di far parte di un popolo libero».

Suo padre ama il Paese e non vuole lasciare la casa in cui è nato e cresciuto, che ha costruito con le sue mani: «È la sua terra, “devono venire a prendermi per portarmi via”, dice sempre. Non posso pensare che è costretto a nascondersi nella cantina, senza le medicine di cui ha bisogno, così come mia zia che è affetta da un grave forma di diabete in stadio molto avanzato, la sua casa a Kharkiv è circondata da scuole militari, che sono state bombardate. Sono al freddo, avvolti nelle coperte».

Fuori dalla loro cantina, Kharkiv non esiste più: «È stato come se fossi stata violentata da tutti quei soldati russi, violata nell’anima e nel corpo. Non vedrò più la mia città, non potrò mai più essere felice».