Sulla spinta del governo Draghi, c’è fermento tra chi si occupa di IA. Viaggio nelle aziende, nelle scuole e nei centri italiani di alta formazione

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«Il futuro è già qui, solo che non è equamente distribuito» scriveva William Gibson agli albori di internet. Oggi, mentre l’Europa sta costruendo un quadro normativo per l’utilizzo etico e inclusivo delle tecnologie digitali, l’Italia lancia un programma ambizioso di ventiquattro azioni politiche per rafforzare la ricerca e le competenze nel campo dell’Intelligenza Artificiale applicata (IA). Ammonta a 2,5 miliardi di euro il pacchetto delle misure definite dal Ministero dello Sviluppo economico per sostenere gli investimenti in startup e PMI innovative, a cui si aggiungono oltre due miliardi sugli investimenti di Venture Capital, i fondi d’investimento istituzionali per lo sviluppo delle start-up. Queste cifre, che s’inscrivono nella transizione energetica e digitale del Piano nazionale di Ripresa e Resilienza, rivelano l’obiettivo del governo di colmare il divario con l’innovazione e i paesi che ne sono forieri, come Israele o Canada.

 

I primi a essere entusiasti sono gli italiani che di IA si occupano da anni: «Finalmente con Draghi al governo c’è un’idea di innovazione condensata in un documento. Per anni, abbiamo avuto a disposizione solo una presentazione di trenta slide» spiega Fabio Ferrari, ingegnere modenese che, sedotto dalla lettura di Moby Dick, a 33 anni ha deciso di applicare la matematica alle aziende. Oggi guida Ammagamma, società di data science specializzata nell’IA, composta da un team fatto di ingegneri, filosofi e storici delle religioni: «L’IA è algebra, e l’algebra è da sempre a supporto dell’uomo per spiegare il mondo. Per questo, quando c’imbattiamo in un dato, abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti a comprendere le sue relazioni, la sua anima: il dato va semantizzato e spesso chi lo lavora non è in grado di farlo. Per questo abbiamo bisogno di formatori umanistici» spiega dalla sua sede di Modena, dove di recente Ammagamma ha aperto un’Academy per professionisti e punta anche alla formazione nelle scuole: «Ai ragazzi non andiamo a insegnare coding, ma li abilitiamo a porsi con senso critico di fronte alle tecnologie che utilizzano tutti i giorni» spiega.

 

Se, attraverso i miliardi del Pnrr, la strategia a supporto dell’IA da parte del governo è percepita come una corsa triennale, le aziende italiane che lavorano nell’innovazione sono consapevoli che c’è bisogno di uno scatto da velocisti per equipararsi ai paesi più avanzati: «Alla base del nostro ritardo c’è una scarsa consapevolezza dei nostri riferimenti italiani e culturali», spiega Ferrari: «Eppure, possiamo fare la differenza rispetto a una cultura americana, dove il dato matematico è solo business, o asiatica, dove il dato è spesso utilizzato in modo coercitivo». Tradotto in cifre, in Italia temporeggiare ha un costo sociale. Lo spiega da Torino don Luca Peyron, parroco classe ’73 e direttore del Servizio per l’apostolato digitale dell’arcidiocesi di Torino: «Secondo il rapporto Censis sulla formazione, il divario digitale determina in modo significativo condizioni di povertà fra generazioni. Noi cerchiamo di colmarlo con corsi ad hoc» parla del suo progetto nato nelle parrocchie, che oggi punta a formare profili spendibili tra le professioni che lavorano nell’IA: «Vogliamo formare figure di cosiddetti antronomi, che cooperino accanto agli ingegneri con l’obiettivo di mettere l’umano al centro. In parallelo, il lavoro che stiamo facendo con la Fondazione Carlo Acutis è diffondere una maggiore consapevolezza attraverso format educativi che, una volta testati a Torino, vorremmo esportare altrove». Ciononostante, don Luca ammette l’evidente ritardo della scuola italiana nella formazione informatica: «La scuola dell’obbligo non ha una capacità di reazione veloce».

 

Per il romano Marco Trombetti, invece, gli stessi limiti si riscontrano negli atenei italiani: «Ci siamo accorti che l’Italia non è inclusa nel ranking delle prime cento università al mondo, possiamo fare di meglio» spiega. Per questo, tre anni fa ha creato Pi School, una scuola nel cuore del quartiere Eur, che realizza corsi di alta formazione di otto settimane.

 

La frequenza della scuola è totalmente gratuita grazie alle borse di studio sponsorizzate dalle aziende, però la selezione è durissima: su una media di 2mila application, ne vengono selezionate venti, finora la Pi School ha formato 170 studenti: «Noi rompiamo il meccanismo universitario perché mettiamo il mondo reale al centro dello studio e facciamo tutoring agli studenti: diamo loro un problema di un’azienda chiedendo di risolverlo partendo dai dati in possesso. Crediamo in una scuola come a un sistema non nozionistico, dove la vita di ciascuno possa migliorare il mondo attraverso il proprio talento». Pi School è uno degli investimenti di Pi Campus, il fondo d’investimento messo in piedi da Trombetti per investire nelle primissime fasi delle startup, quelle che in gergo si chiamano pre-seed e seed: «Investiamo in svariati settori dell’IA applicata: dal trasporto alla medicina, alle tecnologie di base, ai viaggi».

 

Si tratta di uno dei pochi fondi con un’alta attitudine al rischio, anche rispetto alla media dei maggiori fondi di venture capital: «Solitamente, quando investiamo perdiamo nove volte su dieci, ma quando indoviniamo l’investimento, indoviniamo bene» puntualizza. Oggi, infatti, Pi Campus può vantarsi di aver investito in un unicorno – in gergo aziendale, una startup che vale almeno un miliardo di dollari. Tipicamente, un’alta propensione al rischio non è un’attitudine degli investitori made in Italy, ma Trombetti sovverte la prospettiva: «Capiamo che un investimento è buono quando c’è una visione e la gente intorno a noi è scettica», mi spiega in uno spazio del campus battezzato come Cafeteria Olivetti: «Oggi i riferimenti dell’innovazione sono Elon Musk, Steve Jobs o Bill Gates. Prima di loro, c’era un visionario come Adriano Olivetti», dice, mostrandomi la mitica P101, costruita dieci anni prima del prototipo ligneo di Apple.

 

Fresco di studi in fisica, ha fondato Translated, pioniera dei servizi di traduzione online e oggi leader dell’industria, con centinaia di migliaia di traduttori professionisti e un sistema di traduzione automatica basato su un rapporto simbiotico fra uomo e macchina: l’IA supporta l’umano, che la corregge consentendole di imparare e migliorare. Oggi Translated vanta il 70 per cento del suo fatturato nella Silicon Valley, con Google cliente dal 2006: «Le grandi aziende ci scelgono perché siamo europei, quindi capiamo la complessità di un problema che negli Usa faticano a comprendere». Dopo una partnership record con Airbnb, ora punta a diventare un unicorno: «Pensiamo che permettere alle persone di comprendere ed essere compresi nella loro lingua sia la sfida più grande per l’umanità: se riusciamo a farlo, la gente fronteggerà sfide più urgenti».

 

Dalla periferia di Roma al centro di Milano, l’IA è una rete tanto articolata quanto la Penisola. Incastonata tra le fessure dei palazzi ottocenteschi a due passi dal Duomo, IgoodI, azienda specializzata nella creazione di avatar, è nata dall’intuizione di un gruppo di millennial. Oggi quell’idea ha la forma di un uovo, the gate, un generatore altamente tecnologico che crea un avatar speculare al proprio corpo. Il suo founder, Billy Berlusconi, lo chiama smart body: «Il nostro corpo reale era un elemento che mancava nel digitale, così abbiamo sviluppato una piattaforma che genera avatar allo scopo di semplificare le attività digitali, dandoci più tempo da vivere nel mondo reale» spiega. Dalla telesartoria, al gaming, alla telemedicina, oggi l’azienda ha individuato diversi campi di applicazione. Dalla collaborazione con la startup QuestIT, per esempio, nascerà una generazione di assistenti virtuali che, attraverso l’IA, cambierà il modo di fare acquisti online. «Stiamo andando nell’era dell’io digitale, con avatar che si nutrono di nostre informazioni in un dialogo maieutico, continuativo con l’utente» spiega Ernesto di Iorio, CEO di QuestIT: «Un assistente virtuale ha lo scopo di aiutare l’utente a semplificare un dialogo con terzi. Lo definisco, appunto, maieutico perché l’idea di base è rendere efficace il modo con cui ci si esprime».

 

Come spiega la filosofa della scienza Sabina Leonelli, è un’utopia pericolosa sperare che l’IA automatizzi l’intelligenza umana, perché l’analisi dei big data richiede sempre uno sforzo umano per contestualizzare le tecnologie. In Italia questo sforzo sta tracciando risvolti importanti.

 

È quanto fa il Gruppo Hera, che applica algoritmi predittivi adeguatamente addestrati per individuare un guasto nelle reti gas, ottimizzandone la manutenzione: «Non è un progetto futuro, ma una realtà già oggi, finalizzata a massimizzare la sicurezza e minimizzare le dispersioni in atmosfera di un gas fortemente climalterante come il metano» spiega da Bologna Stefano Venier, ad del Gruppo Hera. È anche lui tra i firmatari del Manifesto della razionalità sensibile, lanciato da Ammagamma per guardare all’IA con la visione umana, che la matematica può solo potenziare, mai sostituire. È, d’altronde, quanto elucubravano già gli umanisti nel Cinquecento: oggi l’imprenditoria italiana che punta all’innovazione si rifà a loro, perché mutuando le parole di Enrico Mattei, «il futuro è nelle mani di chi se lo sa immaginare».