Le leggi della ’ndrangheta e quelle del patriarcato. La sopraffazione, i pregiudizi di un mondo arcaico. E il coraggio di opporsi. Al Festival del cinema di Berlino arriva la cronaca più dura. E la voce ribelle delle donne. Parla Enza Rando, avvocato, attivista, vicepresidente di Libera

Uno dei film in concorso nella sezione Panorama del Festival del Cinema di Berlino di quest’anno si intitola “Una Femmina” ed è l’esordio nel lungometraggio di Francesco Costabile, classe 1980. Il film è liberamente ispirato a un libro di Lirio Abbate, “Fimmine Ribelli. Come le donne salveranno il paese dalla ‘ndrangheta”, pubblicato da BUR nel 2013. Il libro di Abbate, che raccoglie storie di donne che si sono ribellate al regime mafioso, parte dal principio che la verità non è un ornamento ma una necessità degli esseri umani e che i giornalisti arrivano là dove talvolta non arriva neppure la giustizia. E che raccontare il passato in maniera più esatta possibile, fino a dove è possibile, è l’unico modo per costruire un futuro diverso. Le donne calabresi di Abbate provano a sfuggire al meccanismo che stringe un territorio in cui la giustizia non sempre è nitida e dove le abitudini prendono spesso il luogo di legge. «Non è raro che i preconcetti, in questa terra, prevalgano sulla giustizia».

 

Di donne, territorio, abitudini e giustizia, parliamo con Enza Rando, avvocato, attivista, vicepresidente di Libera, la principale rete associativa contro le mafie in Italia. Rando ha una voce limpida, un tono puntuale e caldo, attualmente sta seguendo, con l’associazione, circa settanta processi per mafia, come Lirio Abbate è siciliana, e così parto dal chiederle secondo lei perché le mafie sono state descritte come qualcosa di geografico, diciamo. Così almeno ce ne parlavano a scuola a Scauri (basso Lazio) negli anni Ottanta del Novecento. La ’ndrangheta è in Calabria, la mafia è in Sicilia, la camorra è in Campania.

 

A cosa serve e cosa nasconde questo racconto delle mafie?
«È stata una litania che ci ha distratto da quello che le mafie stavano facendo. Sono organizzazioni che, seguendo gli investimenti perché questo fanno, sono sempre andate al nord e oltre il nord. Era comodo, potevamo dire che nel Lazio non c’è mafia – dico Lazio perché lei ne ha parlato – ma vale lo stesso per la Lombardia o l’Emilia. Le mafie vogliono l’invisibilità».

 

Se dovesse darne una definizione?
«Direi che le mafie sono organizzazioni che sottraggono benefici a un territorio. E non ne portano alcuno. La litania della mafia localizzata è un racconto inesatto quanto quello che proclama che la mafia è dappertutto. Sono entrambi racconti che evitano di affrontare la complessità delle organizzazioni mafiose. E l’invasività. La mafia non consegna nulla alle comunità dove si insedia, la mafia sottrae bellezza, risorse economiche e umane, per questo dico che impediscono lo sviluppo dei territori».

 

E dove si insedia?
«Sono andate in Europa, e non da oggi. Hanno fatto investimenti, come nel Nord. E in Europa ci saranno molti beni confiscati. L’Europa non è attrezzata nemmeno dal lato normativo. Il punto è che siamo sempre in ritardo».

 

 

Molti anni fa Roberto Saviano, durante un incontro pubblico, ha detto che le mafie pensano al futuro dei loro affiliati, dei loro giovani, arrivano addirittura a costruire cimiteri. Progettano insomma un posto in questa vita e pure nell’altra.
«Sul tema progettualità le mafie hanno avuto una capacità di creare legame, coesioni, connivenze. Sono strutture economiche, guardano avanti. Pensi a questa pandemia che ci ha costretto a ripensare la sanità pubblica, al settore sanitario. Sono anni che le mafie si interessano al settore sanitario».

 

In che senso?
«Da siciliana, per esempio, mi sono sempre domandata perché molti sindaci sono medici – non voglio dire che tutti i medici-sindaci sono collusi con le mafie, anzi, alcuni sono stati uccisi per essersi opposti, medici e altri professionisti – perché, se lo chiede mai? Voglio dire che mentre pensavamo che fossero delinquenti che spacciavano o saccheggiavano le città, i mafiosi stringevano relazioni con le professioni. Le mafie hanno questa progettualità, costruiscono tutta la filiera del vivere, costruiscono un’ereditarietà con i figli, fanno figli per avere un patrimonio societario e associativo che dia continuità. Ho il vantaggio – non vorrei, ma ce l’ho – di sentirli parlare, di vederli, io lo so che creano futuro, lo progettano, stringono relazioni e alleanze».

 

E danneggiano le comunità.
«Non solo le comunità, fanno danni anche dentro le loro stesse famiglie – che poi è il racconto del film “Una Femmina”, non l’ho visto ma ho letto la sceneggiatura. Penso ai loro bambini nelle aule giudiziarie e vedo una subcultura familistica che stenta a essere accantonata sia al Nord che al Sud. Penso alle donne costrette in meccanismi che le rendono infelici, conniventi, partecipi».

 

Anche colpevoli?
«Non ci sono donne con grandi capi d’accusa, non hanno portato le macchine con l’esplosivo per dirne una, ma sono state e sono partecipi. Sono strumenti dei mariti in carcere. Emissari. Vedove bianche controllate da altri uomini. D’altronde rendere complici le persone rende anche più difficile che le persone si allontanino. Per molti anni le donne non sono state nemmeno imputabili perché non avevano un ruolo all’interno della struttura. Si occupavano dei figli, mantenevano il silenzio o tenevano vivo il focolaio di vendette da compiere».

 

Detto così sembra un mondo arcaico e invece lei parla di progettualità, visione di futuro.
«Ci pensi. Perché altrimenti non avremmo sconfitto le mafie? Abbiamo un’ottima legislazione, la migliore in Europa, abbiamo ottime persone tra i magistrati e le forze dell’ordine – togliendo quelli che colludono o che sono silenti o neutri. Perché non le abbiamo sconfitte, o perché non siamo riusciti a ridurla a una semplice delinquenza?».

 

Perché?
«Per questa ideologia, questa visione in avanti con radici fortissime nei territori e nelle abitudini. Le varie mafie si parlano tra di loro. Pensavamo per esempio che la ‘ndrangheta fossero quattro famiglie che si ammazzavano tra loro, invece abbiamo capito che pure la ‘ndrangheta è una associazione con una struttura verticistica. La ‘ndrangheta è rimasta fuori dalle stragi ed è diventata più forte perché la repressione è andata nei luoghi delle stragi, in Sicilia».

 

Ma di cosa hanno bisogno le mafie?
«Della povertà. Di persone che vengono pagate per fare lavori senza chiedere niente. Le mafie hanno bisogno di gente che li riconosca come capi. Si nutrono della fragilità delle persone. Della loro sudditanza».

 

E la democrazia?
«Di cittadini. Io lavoro col diritto e penso che il diritto non sia la verità ma l’interpretazione della legge. Il diritto è la legge che interpreti. Ma non basta. Le faccio un esempio. Credo che una donna che rompe un sistema mafioso debba essere giudicata se ha commesso un delitto, ma anche aiutata perché appunto ha rotto un sistema. Non si tratta di farla diventare un eroe, per me gli eroi non esistono, gli eroi siamo tutti, gli eroi sono coloro che si oppongono alle mafie e alla corruzione e sono cittadini che partecipano alla vita del Paese, ma capire l’umano di quel contesto e lavorare in quel contesto, col diritto da solo non ci lavori».

 

 

Quanto e se ha contato il fatto di essere siciliana?
«Credo tanto. Sono nata in Sicilia ma ho vissuto all’estero. L’università però ho voluto farla a Palermo. L’ascolto di Falcone e Borsellino, il vedere una terra bellissima e ricca deturpata, violata nella sua urbanistica e nelle sue relazioni – perché per me questo è l’urbanistica, le relazioni – mi ha dato la certezza di non poter essere un cittadino in un territorio così forte se non combatti le mafie. Questo ha inciso. È possibile essere una siciliana e non lottare contro le mafie? No. E questo credo abbia inciso. Ma forse se fossi nata in Lombardia, sarei comunque stata così. Penso che la democrazia sia fatica, responsabilità e scelta».

 

Che parole usa la democrazia?
«Io non ho mai usato parole violente, sono sempre parte civile quindi assisto i familiari delle vittime o le società vittime come associazione Libera, ma mai con parole violente perché anche i mafiosi devono abituarsi a discutere senza parole di scontro. Devono capire che esistono due mondi, separati, e che il loro mondo non va bene per noi, ma nemmeno per loro».

 

E lo capiscono?
«Posso dirle che quando cominciano a usare parole diverse io so che i loro pensieri stanno diventando diversi. Penso alle donne che rompono con il sistema mafioso. Le donne che accogliamo all’inizio parlano un alfabeto mafioso, anche come tono, quando iniziano a prendere consapevolezza, cominciano a cercare altre parole».

 

Cosa la stupisce della vita quotidiana di queste persone?
«Quando leggo un verbale di perquisizione chiedo sempre a chi lo ha steso: “Ma non avete sequestrato nemmeno un libro”?».

 

Perché non ha fatto il magistrato?
«Ci ho pensato, molti dei colleghi con cui ho studiato lo hanno fatto, ma volevo fare politica, il magistrato è un funzionario dello Stato, le mafie si combattono giudizialmente ma non solo e io volevo fare le due cose. Io penso che la politica sia l’arte migliore per cambiare il mondo».

 

“Una femmina” racconta la storia di una donna che si ribella a una ideologia, una abitudine, racconta il tentativo di cambiare.
«I matrimoni di mafia non sono quasi mai matrimoni d’amore, servono per stringere alleanze o per quietare conflitti. Pensi a queste ragazze che crescono in famiglie mafiose ma che usano facebook o i social, che leggono un libro, per esempio, pensi a questo come all’ingresso della modernità che porta con sé anche il volersi sposare per amore. Ci pensi a quanto può essere sovversivo un sentimento così in un mondo rigido come quello mafioso».

 

Enza Rando sorride e io pure perché non avevo mai pensato a quanto il voler essere felici possa essere una forma di modernità, di libertà, e in fondo anche di democrazia.