Nel grande gioco globale si impone un nuovo ordine. La democrazia si compie nella fase repubblicana che supera le appartenenze

Convulsioni per un triste show, che manda in cortocircuito anche la matematica. L’elezione del tredicesimo Presidente della Repubblica porta al Quirinale il dodicesimo, in un vortice di patenti insufficienze, spasmi, tragedie private in luogo pubblico, indegnità varie. Giudici, il popolo italiano e le cancellerie del mondo intero.

 

Perché questo è l’Italia all’approssimarsi di una nuova era, quella della sfinitezza della politica: l’Italia non è solo Italia, è mondo, anzitutto perché è Europa. Si può benissimo pensare che gli occhi vigili e un po’ esasperati del Vecchio Continente osservino con scrupolo censorio i nostri impegni di spesa. Si misurerà però prima o poi quanto l’Italia abbia innescato la rivoluzione del quadro economico europeo, che va sotto la sigla un po’ ridicola e criptica di Pnrr - un terzo in più che la totalità del piano Marshall. E si soppeserà in futuro quanto dichiarato dal ministro francese delle finanze, Bruno Le Maire, una settimana prima dell’elezione per il Colle: «L’Europa è diventata una potenza politica, la regola del debito pubblico è obsoleta», il che pare un po’ più del crollo del muro di Berlino. Così pure dovrà maturare una valutazione storica sulla telefonata che il presidente Biden ha fatto a Draghi 24 ore prima del voto quirinalizio, invitandolo a considerare opzioni sull’Ucraina e sostanzialmente ricevendo parole di diniego (si dovrà fare mente locale sull’ultima volta in cui un premier ha pronunciato per telefono un «no» al presidente americano).

 

Questo quadro, approssimato per difetto, è indifferentemente nazionale, europeo, occidentale e mondiale. Per questa ragione l’elezione della più alta istituzione italiana, più che in passato, è stata un fatto non soltanto italiano. Tanto più che essa ha messo in luce per le democrazie occidentali un passaggio fatale, forse definitivo: l’istituzione che si dimostra non soltanto più forte della politica, ma capace di irradiarla, di contaminarla e di assorbirla del tutto. La politica in discredito mai misurato prima e l’istituzione che rifulge.

 

Sulla gestione dell’attuale fase mondiale la politica appare confusa e inanella record di pubblica sfiducia. C’è da domandarsi però se la politica sia in grado di comprendere, ben prima che gestire, l’esistente, cioè l’intero pianeta nella rivoluzione sanitaria economica e sociale imposta dal virus. La politica sembra avere perduto l’anima delle cose, oltre le cose: se non parte da una prospettiva generale sul mondo, incontra il proprio disastro, il balbettio, il sospetto del magheggio costante e reiterato, la stanchezza del popolo considerato una massa di imbecilli. È una disdetta o una liberazione? L’amministrazione della sopravvivenza (che non coincide affatto con il governo dei tecnici) risulta più alta ed efficace di una strategia politica che non comunichi la sensazione che il futuro è il luogo delle possibilità. «La storia sarebbe estremamente deludente e scoraggiante, se non fosse riscattata dall’annuncio, sempre presente, della salvezza e dalla speranza», scriveva nel ‘77 Aldo Moro, uno degli interpreti italiani più acuti in fatto di politica profetica. Se la politica dismette la capacità di elaborare la profezia, con la speranza che ne consegue, è necessario un dispositivo diverso per interpretare i segnali della rivoluzione che è in atto ovunque. Questo dispositivo è l’istituzione.

 

“Grande riposizionamento geopolitico”: il report 2022 di ControlRisks, società di consulenza globale, definisce così il fatto che «il mondo ha iniziato a ruotare in altro modo e un nuovo ordine mondiale si impone». Questo nuovo ordine verifica il collasso di ogni cosa nel suo contrario: democrazia efficace nell’avvitarsi della politica, debito che non è più debito, tecnologia che intossica l’ambiente per tentare poi di salvarlo, connessioni che incrementano la solitudine, competizione che preme per la cooperazione, lavoro senza reddito e reddito senza lavoro. Tutto ciò è l’aria del mondo: nelle nazioni, nei continenti, nel mondo. Nel pianeta.

 

Questa ibridazione nazionale, europea e mondiale corrisponde a una rivelazione della natura dell’istituzione. Il discorso di accettazione di Sergio Mattarella (un minuto e 15 secondi) è esemplare in questo senso: l’istituzione non usa l’ingombrante pronome «io». Era già accaduto a Capodanno. Il Presidente uscente, che si sarebbe rivelato il Presidente entrante, aveva esplicitamente detto che l’istituzione è il luogo in cui l’uomo deve compiere un salto e spogliarsi di ogni appartenenza.

 

L’istituzione rivela la propria natura di elemento spirituale nel regime della gestione del mondo. La fase istituzionale non chiama semplicemente in causa la politica: la compie e la trascende. C’è una sorta di convocazione della politica, che l’istituzione trasforma in azione profetica sul mondo. Non era affatto scontato che fosse così. La fase attuale potrebbe apparire non democratica, ma sicuramente è repubblicana. Che non sia democratica è un fatto che va chiarito. Significa non che le libertà siano sottratte alla generale applicazione, bensì che esse vengono al contrario intensificate. Pare di essere in un momento in cui la democrazia si compie pienamente, mostrando che la sua verità era l’istituzione, non il processo politico. La Repubblica come culmine profetico della democrazia è la parola antica e nuova che l’Italia sta pronunciando nel mondo?

 

C’è un’inadeguatezza contemporanea a comprendere le sillabe che l’istituzione pronuncia. Lo si era già notato in occasione delle dimissioni di Benedetto XVI, in cui si emetteva la parola dell’istituzione, che è sempre profetica. Nella profezia chiunque è uguale a chiunque: siamo tutti popolo che ascolta. Il profeta formula il suo invito, che è una cooperazione istantanea tra le anime dell’uditorio.

 

«Sono un uomo, se volete un nonno, delle istituzioni»: ecco un’altra parola dell’istituzione, non soltanto della persona. È paradossale che questa frase sia stata interpretata come un’autocandidatura di Mario Draghi. Quell’inciso, «se volete», in due parole disegnava il ruolo del Parlamento e del futuro. «Il mio destino non conta assolutamente nulla. Non ho aspirazioni né per una cosa né per l’altra. Sarebbe un’offesa all’Italia dire che tutto è legato a un singolo individuo». Si può non credere a queste parole, ma comunque esse sono state pronunciate. Sono formule politiche o è la cifra istituzionale? Non si faticherà a pensare che ragionino così Xi Jinping, il pontefice attuale, i sindaci delle grandi megalopoli mondiali, gli astronauti della stazione orbitale. C’è un momento di verità tra noi e noi stessi, in cui tutte e tutti dobbiamo ragionare in questo modo. Il problema si presenta oggi a chi, in ogni mossa di potere che può compiere, non pensi così.

 

Né sinistra né destra né centro, l’istituzione sprigiona l’energia con cui ha a che fare la politica oggi, soprattutto in Italia. Soltanto chi saprà interpretare questa parola inqualificabile, che però qualifica ogni cosa, sarà il soggetto politico del nuovo tempo.