Un documentario ripercorre le vicende della band nata negli anni Ottanta a Bari. Nabil, voce del gruppo: “Rispetto ad allora i palestinesi vivono due sciagure: l’occupazione di Israele e una leadership corrotta”

Poetica musicale. Vocazione interculturale. Canzoni curate. Testi dotti scritti in arabo, italiano, latino, che spaziano dalla cronaca alla filosofia. Dagli episodi di vita alle raffinate citazioni. Un confronto in musica tra Oriente e Occidente, utilizzando strumenti tradizionali dei Paesi di provenienza e mescolando generi diversi: popolare, cantautorato, rock, etnico, folk.

È il sound degli Al Darawish (“gente semplice” in lingua araba), una sorta di etno-rock mediterraneo da loro stessi oggi definito «meticciato», nato negli anni Ottanta all’università di Bari dall’incontro tra il libanese di origini palestinesi Nabil Bey Salameh (voce, chitarra e bouzouki) e gli italiani Michele Lobaccaro (basso elettrico e chitarra), Rocco Draicchio (percussioni) e Paolo Mastromarco (violino). Ai quali in seguito si sono aggiunti altri componenti, tra cui il greco Stratos Diamantis (fisarmonica).

La loro storia viene ora ripercorsa nel documentario “In prima luce. I Radiodervish raccontano gli Al Darawish”, liberamente disponibile online, realizzato da Carlo Mazzotta, videomaker salentino. «Nei nostri cassetti segreti custodivamo un notevole patrimonio di materiale audio-video. Volevamo costruirci da tempo un prodotto professionale ragionato, raccontando aneddoti e tirando fuori questo percorso non solo musicale, ma di vita, di un’epoca che abbiamo vissuto», racconta oggi a L’Espresso il cantautore Nabil, tra i fondatori sia degli Al Darawish (scioltisi nel 1997), sia dei successivi Radiodervish.

 

«Eravamo un collettivo formato da giovani di varia estrazione. All’università condividevamo la passione di conoscere il mondo dell’altro», ricorda ancora il cantautore. «All’epoca ci rapportavamo con maggiore spontaneità. Eravamo più puri. La tanta speculazione politica ha poi portato avanti una vera e propria operazione di inquinamento dell’immagine dell’altro», riflette oggi Nabil. «La musica degli Al Darawish e ora dei Radiodervish è stata proprio questo: non ancorarsi alle proprie radici, vedere il mondo non in modo esclusivo ma inclusivo. Con la creatività siamo partiti da mondi diversi per crearne un altro che ingloba quelli di provenienza allargandoli, mettendoli in connessione ma anche in discussione».

 

In Medio Oriente quelli sono gli anni della Prima Intifada (“rivolta” in arabo), la sollevazione di massa del popolo palestinese contro l’occupazione israeliana iniziata nel 1987, proseguita per sei anni e costata oltre 2mila vittime (160 quelle israeliane).

 

Gli Al Darawish nascono in quel periodo, cercando di «riportare una narrazione obiettiva e autentica di quanto stava accadendo. Non a caso “Gaza” è stato il nostro primo brano inedito», ricorda ancora Nabil. Anche grazie a quella canzone si fanno notare, le radio iniziano a programmarla, si esibiscono dal vivo in tutta Italia e nel 1993 esce il loro primo omonimo album, Al Darawish, che contiene anche “Intifada”. «Rispetto ad allora i palestinesi oggi vivono due sciagure: l’occupazione di Israele e una propria leadership corrotta non in grado di rispondere alle legittime aspirazioni del suo popolo», riflette Nabil: «In Cisgiordania sono governati da un’autorità a dir poco mafiosa, nella Striscia di Gaza da una leadership fuori di ogni grazia: quella di Hamas. C’è poi lo Stato di Israele, che continua a portare avanti l’apartheid discriminando anche i propri stessi cittadini, infrangendo le regole della Convenzione di Ginevra circa la responsabilità nei confronti delle popolazioni occupate. Perché, nonostante le pulizie etniche, Israele continua impunito ad avere credito: qualsiasi sua azione o decisione viene giustificata o al massimo condannata a parole. Mentre gli accordi di pace si sono rivelati soluzioni imposte, non basate sulla restituzione di dignità e giustizia o sul rispetto dei diritti di tutti i cittadini che vivono su quella terra, palestinesi e israeliani inclusi ovviamente».

 

Per Nabil la Palestina è un pezzo di cuore. «Sono nato in Libano da rifugiati palestinesi fuggiti nel 1948 sotto le bombe dalla città di Giaffa, allora stretta nella morsa dell’assedio da parte delle milizie israeliane». La sua famiglia discende dalla millenaria tribù dei Quraysh, alla quale appartenne a suo tempo anche il profeta Maometto. In Libano, suo padre lavorava all’Agenzia Onu per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (Unrwa).

 

Dopo aver frequentato un collegio greco-ortodosso nel quartiere cristiano della città libanese di Tripoli nella quale vivevano, dopo una tappa nella Romania del dittatore Ceaușescu, nel 1983 Nabil prosegue gli studi di ingegneria a Bari, dove arriva per pura coincidenza: «Presentai tardi la mia domanda all’Istituto di cultura italiana di Beirut e mi venne assegnata quella sede universitaria. Fin dall’inizio, in Puglia mi sono sentito se non a casa, in un ambiente molto affine e similare».

La voglia di raccontare, per dieci anni ha portato Nabil a fare anche il giornalista: «Nel 1997, a pochi mesi dal suo lancio, sono stato corrispondente dall’Italia di Al Jazeera (quella originale in arabo, ndr), tv qatariota panaraba di sole notizie. Leggevo le dinamiche del panorama politico italiano, gli avvenimenti importanti e il loro riflesso sulle questioni mediorientali. Il mondo arabo e la sua opinione pubblica erano molto interessati a capire cosa avveniva in Italia, in quella fase storica Paese leader nel sub-continente mediterraneo, secondo la definizione dello storico francese Fernand Braudel».

Tutto questo fino al 2007, anno in cui sceglie di dedicarsi esclusivamente alla musica, ai Radiodervish: 13 album all’attivo e collaborazioni con vari artisti, da Franco Battiato alla cantante israeliana Noa, da Jovanotti all’Orchestra araba di Nazareth (Palestina). «Nel 1998, il primissimo disco dei Radiodervish è stato prodotto da Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni con gli allora Dischi del Mulo. Con quell’album abbiamo esplorato nuovi linguaggi musicali utili a interpretare i nostri pensieri. Perché un musicista è anche uno scrittore, fonde letteratura e musica».

Nella sua Palestina, Nabil è riuscito a metterci piede per la prima volta soltanto nei primi anni Duemila. «Attorno al 2005 abbiamo conosciuto l’Orchestra araba di Nazareth. Una grande esperienza personale, coincisa con il rilascio del mio passaporto italiano. Prima di allora non avevo mai visto la Palestina. Anche ai miei genitori era sempre stato vietato tornarci», prosegue il cantautore. Con l’Orchestra araba di Nazareth, in quel periodo, realizzano concerti dalla Palestina all’Italia, passando per Tel Aviv. Assieme, nel 2009, incidono poi l’album “Beyond the Sea”, «a mio parere uno dei più riusciti, con racconti e storie del nostro mare, il Mediterraneo, scritti a Gerusalemme durante un mese passato in un convento di suore salesiane».

Di nuovo insieme lo scorso novembre, per due concerti all’Expo di Dubai. «Quell’area del mondo costituisce un altro capitolo di tragedie non narrate. Conquistano l’opinione pubblica mondiale sbattendogli in faccia la loro grande modernità tecnologica e le ricchezze di facciata, nascondendo nel lato oscuro molte miserie, tragedie e dolore, soprattutto per quanto riguarda i lavoratori stranieri, che costituiscono oltre il 90 per cento degli abitanti degli Emirati Arabi Uniti o del vicino e similare Qatar. Per essere egemoni nell’area, gli Emirati mirano ad avere una prevalenza militare, oltre che culturale. Lo si è visto quando per un gioco di potere e di interessi strategici si sono imbarcati nella guerra nello Yemen, al fianco dell’Arabia Saudita. Nulla da discriminare sulla vocazione di queste nazioni, ma questi altri aspetti non devono passare inosservati senza il dovuto senso civico e critico».

Del 2007 è invece “L’immagine di te”. Sia l’album, sia il videoclip della canzone sono prodotti da Battiato e distribuiti dalla Sony Music, nei primi anni Duemila etichetta di riferimento del “maestro” recentemente scomparso. «Con gli Al Darawish, trovandoci a Catania, lasciammo un nostro disco con tanto di numero di telefono nella cassetta della posta della Ottava, la sua società di edizioni musicali. Dopo un po’ di tempo, Franco ci ha chiamati, complimentandosi e incoraggiandoci. Da allora è nata una grande amicizia. Nella sua casa, a Milo, siamo stati tante volte. Battiato era tra i primi nostri ascoltatori. Finita la lavorazione di un album, lo inviavamo subito a lui per avere dei consigli. Quando gli sottoponemmo “Human” del 2013 (uno dei due dischi fatti con la Sony) a lui piacque molto il brano “Lontano”. Voleva portarlo a Sanremo. Personalmente non sono un seguace del Festival, non lo guardo da anni, non mi attira, ma lui rimase molto deluso quando il brano venne scartato. Inserì così “Lontano” nel suo spettacolo Diwan, tour durante il quale poi lo abbiamo cantato insieme».

Riguardo al futuro, «ora stiamo lavorando ad un nuovo disco, con il quale i Radiodervish rivisiteranno parte del repertorio degli Al Darawish, ormai non più reperibile in commercio, con la consapevolezza, l’esperienza, la maturità, i viaggi e gli incontri di oggi. Con quella fase importante del nostro percorso artistico e personale, proveremo così a chiudere il cerchio». Intitolato anche questo “In prima luce”, uscirà entro il 2022 con i brani degli esordi: «Quelli dalla connotazione intellettuale e politica ben precisa, i più significativi e se vogliamo formativi che ci hanno lasciato un’impronta notevole».

Tra questi “Radio Dervish”, nome anche del successivo e attuale gruppo di Nabil, uno dei primi brani cantati in italiano che si ispira ai romanzi dello scrittore cyberpunk statunitense Hakim Bey e in particolare al suo “Taz” del 1991. «Già in tempi non sospetti, lui aveva ipotizzato la necessità di avere delle zone temporaneamente autonome, delle isole pirata fuori dal controllo temporale e del potere. Un concetto che ha immediatamente colpito la nostra immaginazione, ispirando quel brano».