«Sembra di percepire una volontà attiva di perpetuazione del dolore da parte della classe dirigente. Le scelte sul ddl Zan, il taglio alle pensioni ai disabili, le manganellate agli studenti e la decisione sui quesiti popolari acuiscono una distanza generazionale»

Mi sembra sempre più drammaticamente evidente che non solo non ci sia volontà di ascolto, ma che sia in atto un’irreale guerra contro chi soffre. L’affossamento del ddl Zan, l’abolizione delle pensioni per persone con disabilità fra il 74 e il 99 per cento che percepiscono redditi di più di 4.931 euro all’anno, le manganellate contro gli studenti che vengono mandati all’ospedale con traumi cerebrali, con l’unica “colpa” di protestare perché costretti a lavorare gratis e morire per ottenere il diploma, il respingimento dei referendum su eutanasia e cannabis legale, sono segnali di una politica non solo distante ma nociva nei confronti di chi soffre. Sembra di percepire una volontà attiva di perpetuazione del dolore da parte della classe dirigente. Cerco in tutti i modi di conservare rispetto per lo Stato, per le istituzioni, ma il disprezzo che trapela è tale da provocare la sensazione di esserne respinti.

Fa bene Marco Grieco, nel servizio “Gli inascoltati” a sottolineare la distanza abissale che oggi divide giovani e adulti. Per noi alcuni diritti sono basi fondamentali di una società civile, diritti che per la classe dirigente sono spesso arbitrari, anche quando mostra di volersene prendere cura. Grieco mostra di intuire la radice del problema anche nel menzionare l’argomento dell’energia nucleare, che oggi raccoglie grande consenso nella popolazione dei giovanissimi: è una demarcazione che riassume con particolare efficacia questa distanza generazionale.

La nostra è una generazione che è stata abituata a confrontarsi con la complessità fin dall’infanzia, molti di noi parlano più di una lingua, la nostra esistenza si proietta in una dimensione internazionale, in una consapevolezza della pluralità che sfavorisce la polarizzazione del dibattito. Una parte della “generazione Chernobyl” è cresciuta nella paura, in un clima di disintermediazione e disinformazione che ha condotto a timore, frustrazione, autoreferenzialità, ineducazione al dialogo. Noi siamo cresciuti in un’epoca dove confrontarsi con altre nazionalità, altre mentalità, altre religioni, è normale, e credo che aver vissuto la pandemia a un’età così giovane abbia ulteriormente accentuato questa disposizione mentale volta all’analisi di una realtà complessa, integrando più scenari insieme, una lotta innanzitutto interiore per non perdere la lucidità nella tempesta. Non penso che la classe dirigente sia in grado di accogliere questo modo di essere proprio perché è polarizzata. Paradossalmente, il fatto che il presidente Mattarella rappresenti l’opposto di questa concezione, la massima espressione della capacità della politica di empatizzare e comprendere la complessità, mentre il Parlamento è paralizzato da unilateralismi ed egotismi, è esso stesso un sintomo di polarizzazione estrema e malsana. Abbiamo perso la mediazione, o meglio l’intermediazione. Non ci sono ponti. Il problema del consenso giovanile sul nucleare è paradigmatico di questa solitudine: abbiamo ripreso un argomento tabù per gli adulti, leggendo i numeri, fidandoci della scienza e non della paura, per salvarci dalla crisi climatica che rischia concretamente di distruggerci. Lo stiamo facendo... fra giovani. Da qualche tempo frequento associazioni, comitati di divulgazione sull’energia atomica, che hanno trovato nei social la propria dimensione madre. Spesso ci sentiamo dire che siamo fake, troll, ma la realtà è che non solo non siamo fake, siamo quasi tutti giovanissimi.

 

Neolaureati in fisica, ingegneria, chimica, gli attivisti e i divulgatori hanno spesso la mia età o pochi anni più di me. Ci facciamo forza fra noi, ci organizziamo fra noi. La disillusione nei confronti della politica è profonda. Credo che questo popolo di giovanissimi sia considerato come un corpo estraneo anche perché, forse, un po’ lo è davvero. L’incomunicabilità ci ha tagliati fuori, e noi stiamo effettivamente costruendo al di fuori dello status quo, lottando per arginare la perpetuazione del dolore (eutanasia, cannabis, nucleare come risposta alla crisi climatica da questo punto di vista mi sembrano tre facce dello stesso problema). Reputo che ciò non sarebbe dovuto succedere, l’esclusione dalla partecipazione condivisa fra più categorie, più generazioni, è ingiusta, e più andiamo avanti, più la spaccatura si fa dolorosa e pericolosa per la salute del nostro Paese.