La prima poesia. Il cimitero di Casarsa. L’innocenza perduta del Pci. La bomba di piazza Fontana. Il corpo seviziato. Negli oggetti dello spettacolo teatrale “Museo Pasolini” la nostra storia. «Era famoso, è stato utilizzato dal fascismo come un contenitore del letame. Il regime l’ha consegnato alla sua fine»

Largo Spartaco, con le case di via Sagunto nel quartiere Quadraro di Roma, costruite con il piano Ina-Casa firmato nel 1949 dal ministro democristiano Amintore Fanfani. Un lunedì romano di pioggia e di vento, i murales nel sottopassaggio, il bar con le foto di Anna Magnani e Alberto Sordi, la parrocchia dell’Assunzione di Maria di cemento armato in mezzo ai palazzi, una scritta sul muro: «Babbo Natale servo del Capitale». Un angolo di Roma, «la città che ricomincia dove pensi che la città sia finita». Qui Pier Paolo Pasolini girò “Mamma Roma”, qui ci sono le “case belle” di Ettore e di sua madre, le case di mattoni per le famiglie, qui c’era la casa dell’architetto Adalberto Litta che le disegnò. Dove «si viveva nel fango di inverno e nella polvere d’estate», dove il prete don Roberto Sardelli costruì la sua idea di borgata.

 

Parliamo di Pier Paolo Pasolini qui, con Ascanio Celestini, che negli ultimi mesi ha portato in giro il suo spettacolo “Museo Pasolini”, un viaggio nella memoria collettiva con la finzione scenica di una galleria dove vengono esposti gli oggetti che hanno segnato insieme la vita dello scrittore corsaro e la storia italiana. «Vedeva qualcosa che noi non vedevamo. Noi parliamo di Pier Paolo Pasolini in modo violento, o per proteggerlo. Evitiamo di contestualizzarlo, di incontrare la sua complessità. Pasolini non è friulano, ma scrive le sue prime poesie in friulano. Sceglie una lingua viva e la fa sua, come poi il romanesco in “Ragazzi di vita”, con una finalità poetica e politica: far entrare nella storia le persone con i loro abiti, le loro parole. Quei corpi sono un linguaggio, quella natura è un linguaggio. La paura del realismo nasconde spesso la paura della realtà», dice Celestini.

 

Nello spettacolo il corpo dell’attore è solo sul palco, trasformato in custode, guida, e alla fine giudice, voce di tutti. «Il luogo del delitto di Pier Paolo Pasolini non è l’Idroscalo di Ostia. È il Novecento. I colpevoli siamo noi che abbiamo vissuto questo secolo pieno di tragedie e di utopie. E la pena da scontare è spalancare le porte di questo secolo, mostrarlo senza omissis, senza reticenze, senza vergogne, senza cancellature, rispettando – se possibile – la cronologia…». Come ha scritto Vincenzo Cerami, allievo di Pasolini: «Se noi prendiamo tutta la sua opera, se noi prendiamo tutto insieme il suo lavoro e poi lo ordiniamo secondo cronologia noi avremo il ritratto, il disegno della storia italiana dalla fine degli anni del fascismo fino alla metà degli anni ’70. Pasolini ci ha raccontato cosa è successo nel nostro Paese in tutti questi anni».

 

Celestini mostra ai visitatori gli oggetti del museo. Oggetto n. 1: la prima poesia di Pasolini andata perduta, composta quando aveva sette anni, era nato nel 1922, l’anno zero dell’era fascista. Oggetto n. 2: il piccolo cimitero in cui Pier Paolo riposa accanto alla mamma Susanna, al fratello Guido, al papà  Carlo Alberto e alle zie. Oggetto n. 3: il 1956, l’invasione sovietica dell’Ungheria, l’innocenza perduta dei comunisti italiani: «Il Pci ha preso l’innocenza e l’ha ripiegata, come una bandiera in tempo di guerra». Oggetto n. 4: la borsa in similpelle marca Mosbach-Gruber che conteneva l’esplosivo usato nella banca dell’Agricoltura di Milano il 12 dicembre 1969, la strage di piazza Fontana. L’ultimo reperto mostrato allo spettatore, l’oggetto n. 5, è il corpo massacrato del poeta, a Ostia, nella spiaggia dell’Idroscalo.

 

«L’operazione fascista su Pier Paolo Pasolini è riuscita», dice Celestini. «Era famoso, è stato utilizzato dal fascismo come un contenitore del letame. Il fascismo l’ha consegnato alla sua fine». Nello spettacolo di Celestini il museo è finanziato da un misterioso personaggio, Alberto, «un gigante degli idrocarburi», un po’ Enrico Mattei un po’ Eugenio Cefis, i presidenti dell’Eni intrecciati da Pasolini nel romanzo incompiuto “Petrolio”.

 

Il custode del museo si rivolge ad Alberto. Nel 1956 Alberto bussa alla porta di tutti e tutti bussano alla porta di Alberto e Celestini mette in scena il via vai vertiginoso di quegli anni di crescita economica e di blocco politico. «Toc toc. “Che voi, Albè? “Arabi, voglio il petrolio” “Non te lo possiamo dare, Alberto, gli americani non vogliono”. Toc toc. “Chi siete?” “Siamo gli americani, perché vai a comprare il petrolio dagli arabi?” “Perché mi serve, abbiamo il boom economico”. “E noi, che ci guadagniamo?” “Voi americani ci guadagnate che i comunisti non vanno al governo. I fascisti sono tutti liberi e se i comunisti vanno al governo i fascisti fanno il colpo di Stato. Mussolini non c’è più, ma c’è il principe Junio Valerio Borghese”. Toc toc. “Chi è?” “Siamo i comunisti, quand’è che possiamo fare la rivoluzione?” “Ma se fate la rivoluzione arriva Junio Valerio Borghese”. Toc Toc. “Chi è?” Siamo di nuovo i comunisti: quand’è che possiamo andare al governo?” “Ma se voi diventate socialdemocratici e andate al governo, poi che ci faccio con i fascisti?”… ». Alla fine, dopo tutto questo bussare, il signor Alberto si fa negare.

Nella notte della Repubblica partì la stagione delle bombe, con la strage di piazza Fontana, e arrivò il ponte della festa dell’Immacolata del 1970, quando il principe Borghese aspettava il momento di far scattare il colpo di Stato, ma venne fermato da una misteriosa telefonata all’una e quaranta della notte. «Fascisti, avete una casa? Tornateci, il colpo di Stato è rimandato». Celestini simula la telefonata che ferma l’operazione: «Ma quando mai abbiamo detto che un colpo di Stato è un colpo di Stato? Noi la rapina in banca la chiamiamo operazione finanziaria…».

 

Il colpo di Stato è riuscito, è la prova che è più di un indizio per Pasolini che consegna al “romanzo delle stragi”, la sequenza di “Io so” sui nomi degli esecutori e dei mandanti delle bombe. E che finisce nella notte dell’Idroscalo come un sacco di spazzatura. «Chi è sto fijo de na mignotta che ha buttato la monnezza sotto casa mia?», si chiede Maria Teresa Lollobrigida, la prima a individuare quel sacchetto di resti che invece è un cadavere. Il corpo di Pasolini, ucciso il 2 novembre 1975, anno 53° dell’era fascista, conclude la visita guidata nella nostra storia Ascanio Celestini.

 

«Il colpevole non è chi lo ha ammazzato, e neppure chi lo ha mandato, ma chi ci ha guadagnato di più dalla sua morte. In tanti ci hanno guadagnato, utilizzandolo. Finché campava diceva quello che voleva lui, ora che è morto gli facciamo dire quello che vogliamo noi». Due giorni dopo, il 4 novembre, Pasolini avrebbe parlato al congresso del Partito radicale per cui aveva già scritto l’intervento: «Il potere si prepara ad assumere gli intellettuali progressisti come propri chierici. Ed essi hanno già dato ad un invisibile potere una invisibile adesione intascando una invisibile tessera». Un’altra profezia da consegnare al Museo che non si riesce a concludere, in questo Novecento che non è mai finito.