Il mondo ondeggia tra volontà di potenza imperiali, difese conservatrici di antiche sovranità statuali e l’universalismo umanitario astratto e impotente dell’Onu. Chi sperava che il Vecchio Continente potesse dare forma a un nuovo ordine è rimasto deluso

Sappiamo da tempo che Cicerone sbagliava e che “inter pacem et bellum” vi sono innumere vie di mezzo. Quando un vecchio ordinamento delle relazioni internazionali viene meno e uno nuovo non sta neppure all’orizzonte, queste vie di mezzo tendono però ad assumere un carattere occasionale, improvvisato, arbitrario. Al crollo del vecchio ordinamento, l’impero vincitore aveva coltivato la rovinosa illusione di poterne fondare uno nuovo sulla propria indiscussa egemonia.

 

Questa ha comportato guerre giustificate in base a incredibili menzogne, terrorismo dilagante, azioni e reazioni da parte dei nuovi protagonisti della politica mondiale al limite della ingovernabilità. Tra le sue conseguenze più gravi, l’illusione americana ha portato a confondere il crollo dell’Urss con la fine di ogni vocazione imperiale da parte della grande Russia. Nel momento iniziale del crollo, l’Occidente ha assistito con un misto di soddisfazione e di patetici utopismi sul futuro democratico di quell’immenso Paese, futuro che avrebbe dovuto svolgersi a nostra immagine e somiglianza, per fare poi dolorosamente i conti con l’inevitabile risveglio di quella grande potenza, che mai avrebbe potuto accettare come un dato di fatto irreversibile gli effetti del suo smembramento nei modi contrattati da Eltsin insieme a una banda di potentati e feudatari delle varie ex repubbliche sovietiche. Putin non rappresenta che la logica riaffermazione di una assoluta sovranità statuale-imperiale. Con questa occorre saper trattare, nella piena consapevolezza che ogni sogno egemonico occidentale è tramontato per sempre, che l’impero americano versa in una decadenza forse inarrestabile e che dovremo saperci muovere in una prospettiva in cui la globalizzazione dei rapporti economici, tecnici, commerciali paleserà ogni giorno di più le proprie contraddizioni con assetti politici ancora fondati su antiche forme di sovranità. Basterebbe un’immagine a dimostrarlo: l’esistenza dei nostri confini - cosa finisce con essi? Cosa tengono dentro-e-fuori? Trattengono, frenano e basta.

 

Nella divisione del mondo in grandi aree non spazializzabili, formate da terra, mare, cielo, ma soprattutto dall’immateriale della forza e ampiezza delle loro reti, esistono potenze in grado di svolgere un ruolo planetario - erano due, e ora sono almeno cinque o sei - e al loro interno vivono due terzi della popolazione mondiale - e entità statali prigioniere dei propri confini. Ma è l’intera politica internazionale che di fronte alle attuali crisi sembra costretta a ridursi a un’azione di puro freno e di contenimento. L’Occidente con particolare tenacia. Le sue armi sembrano essere quelle delle sanzioni o del boicottaggio. Ma nei confronti di potenze imperiali, ogni sanzione è destinata a provocare una contro-sanzione. E questa peserà infinitamente di più sugli anelli deboli del sistema, moltiplicando disuguaglianze e incomprensioni tra “alleati”.

 

Già l’ultima salva di sanzioni non mi pare abbia avuto conseguenze socio-politiche di rilievo in Russia, mentre in Italia, ad esempio, parecchie industrie ci hanno rimesso la pelle. Oggi c’è in ballo quel metano di cui abbiamo assoluto bisogno (grazie alle sciagurate politiche industriali ed energetiche degli ultimi 40 anni). Il ricorso, poi, a motivi propagandistici, tesi a screditare ideologicamente-eticamente l’avversario - arma che ha funzionato durante la “guerra fredda” -, oggi temo non possa avere altro effetto che rendere ancora più difficile i compiti della diplomazia.

 

Già Hobbes lo avvertiva: la squalificazione dell’avversario finisce col rafforzarlo, col compattarne i ranghi, soprattutto se il suo regime non teme più di tanto un’opinione pubblica criticamente orientata (ma quale lo è oggi?). Chi proscrive è proscritto, e questo gioco aumenta incertezza, insicurezza, paure reciproche. Così non si fa che accelerare l’entropia del sistema e rendere impossibile anche il lavoro di chi frena, ritarda, trattiene.

 

Lavoro forse necessario; ma quanto potrà durare ed essere efficace? Per quanto si potrà ondeggiare sul “border”, sulla terra di nessuno fatta dalle infinite forme di relazione che non sono né pace né guerra? Potrà un nuovo Nomos della Terra uscire “pacificamente” da quest’opera di semplice impedimento dell’aperto confronto bellico? In passato, grandi figure che si erano dedicate alla “conservazione” della pace fallirono questo scopo. Se vuoi la pace dopo una crisi d’epoca occorre costruirla ex novo. La pace si crea quando a un nuovo stato delle cose si riesce a conferire ordine politico, nel quadro di un nuovo diritto internazionale. È destino storico che a un nuovo ordine queste crisi conducano - che il come non sia tragico dipenderà anche dalla nostra intelligenza e dalla nostra volontà.

 

A questo Nomos nessuno oggi pensa e tantomeno qualcuno ci lavora. Ondeggiamo tra volontà di potenza imperiali, difese conservatrici di antiche sovranità statuali e l’universalismo umanitario astratto e sempre più palesemente impotente dell’Onu. La speranza che ha nutrito la generazione che ha vissuto la caduta del Muro era che fosse precisamente la missione dell’Europa unita costruire il progetto di un nuovo ordine mondiale. Fu illusione anche questa? Che rispondere dopo Iraq, Medio-Oriente, ora Ucraina? Edmund Burke, voce dell’Inghilterra che muoveva alla conquista dell’egemonia, vedeva nella Spagna una balena arenatasi sulle spiagge dell’Europa. Vedranno i posteri l’Europa come una balena arenatasi sulle spiagge dell’Asia?