Lavoratori sfruttati, multinazionali che si accaparrano territori sempre più vasti. Il boom dell’agricoltura intensiva elimina i boschi e cancella specie animali e vegetali che rendono stabile la biosfera. Foto di Alessandro Cinque

Distese senza fine di palme africane fanno ombra sulla highway 20, man mano che da Santo Domingo de los Colorados si avvicina alla provincia settentrionale di Esmeraldas, dove l’Ecuador confina con la Colombia. Le più grandi piantagioni di palma da olio sono qui, nella Foresta del Pacifico, o Chocó-Darién ecuadoriano, l’ecoregione ai piedi della cordigliera delle Ande che taglia in due la piccola Repubblica del Sudamerica, dall’anno scorso guidata da Guglielmo Lasso, primo presidente di centrodestra dopo due decenni.

Anni fa quest’area era ricca di specie e piante autoctone. Oggi gran parte degli habitat originali è distrutta e l’alto tasso di deforestazione, il più elevato del Paese, minaccia ambiente e persone. Secondo Global Forest Watch, tra il 2001 e il 2019 la provincia di Esmeraldas ha perso 116 mila ettari di superficie forestale, una riduzione dell’8 per cento. «Su scala globale la perdita di boschi sta diminuendo, siamo a circa otto milioni di ettari in meno ogni anno, prima del 2010 erano più di 13. Ma l’obiettivo da raggiungere, fermare la deforestazione entro il 2030, ribadito alla Cop26 di Glasgow anche dai leader dei 131 Paesi che contengono oltre il 90 per cento delle foreste, resta lontano», commenta Antonio Brunori, segretario generale in Italia del Pefc, organizzazione non governativa che si occupa della corretta gestione delle foreste nel mondo.

 

Eliminare i boschi significa cancellare specie animali e vegetali che contribuiscono a mantenere stabile la biosfera, disturbare gli equilibri di virus e batteri e generare inquinamento. Più del 10 per cento delle emissioni di CO2 prodotte dall’uomo ogni anno. «Le piantagioni a monocoltura arrecano un danno enorme alla terra perché creano una dinamica perversa per cui diventa necessario utilizzare i fertilizzanti per contrastare l’impoverimento del terreno. La rottura degli equilibri naturali porta alla proliferazione di alcune specie di insetti e piante che vengono eliminati con pesticidi e diserbanti, che danneggiano e impoveriscono ancora di più suolo e ambiente». Come spiega Brunori, il problema non sta solo nel taglio degli alberi ma nella trasformazione permanente dell’uso della terra, da naturale ad artificiale, che modifica le vite di miliardi di persone. Di alcune ancor più che di altre: doña Julia Lapo vive in una piccola comunità, nel cantone di Quinindé, provincia di Esmeraldas. Ogni mattina, insieme al marito Rosendo Moran, attraversa un piccolo fiumiciattolo a bordo di una canoa, entra in quel che rimane della foresta e arriva al campo. Ventuno ettari di terra in grado di produrre fino a ventidue quintali di cacao l’anno.

Lavora con la sua famiglia, cura le piante con dedizione, quando sono mature raccoglie le fave di cacao nella grande cesta di vimini che porta sulle spalle. Il marito di doña Julia prima lavorava in una piantagione di palme, per anni ha fatto l’autotrasportatore, finché non si è infortunato ed è rimasto disoccupato. «Le imprese produttrici di palma da olio non rispettano i diritti dei lavoratori, i sindacati praticamente non esistono. Pagano una parte degli stipendi con buoni che possono essere spesi solo nelle botteghe di proprietà dell’azienda, dando origine a un sistema dal quale difficilmente i soldi escono. Sfruttano le comunità locali senza creare benefici», spiega Nathalia Bonilla, presidente di Acción Ecológica, una delle più importanti organizzazioni ambientaliste dell’Ecuador.

 

Per Bonilla è più cospicuo e sicuro il reddito che un agricoltore ricava dalla sua terra se ha gli strumenti e le conoscenze per coltivarla rispetto al guadagno di chi lavora nelle piantagioni. Per questo è fondamentale l’operato delle organizzazioni che offrono sostegno e formazione agli abitanti delle comunità, legittimi proprietari dei poderi in cui vivono, che dovrebbero essere adeguatamente interpellati in merito ad ogni decisione che riguarda i loro territori, come stabilito dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni. Contribuire allo sviluppo di forme di economia che garantiscano la sussistenza alle popolazioni locali significa evitare che vendano i loro possedimenti ad aziende dotate di grandi capitali e di notevoli capacità persuasive, per un profitto effimero, incapace di durare nel tempo. Infatti, nella provincia di Esmeraldas, dove secondo i dati del 2019 dell’Istituto Nazionale di Statistica e Censimento INEC, c’è il 40 per cento delle piantagioni di palma da olio di tutto l’Ecuador, il 72,2 per cento delle persone non ha i mezzi per soddisfare le esigenze di base, indispensabili per condurre una vita dignitosa. Un terzo degli abitanti vive in condizioni di estrema povertà.

Al contrario della maggior parte dei vicini, doña Julia non ha mai voluto vendere la sua terra ed è grazie alla coltivazione del cacao che mantiene la famiglia. La sua impresa fa parte della cooperativa Cocpe che raggruppa i piccoli produttori locali, facendo in modo che il cacao che raccolgono possa essere commercializzato a prezzi concorrenziali, offrire prodotti d’alta qualità e dare i proventi che meritano agli agricoltori. Ma non soltanto. È anche la fondatrice, con il contributo di Cospe, ong di Firenze, di un’associazione di donne che non si accontentano di vendere il cacao grezzo, ma hanno aperto un laboratorio del cioccolato che produce tavolette e cioccolatini per il mercato interno ecuadoriano. «Lavoriamo per offrire alla popolazione gli strumenti necessari all’emancipazione. L’incentivo a coltivare specie autoctone, come il cacao “criollo”, prodotto di pregio dell’Ecuador, è una via per invitare le comunità locali a resistere alla logica del profitto a breve termine, contrastare la deforestazione e promuovere l’autodeterminazione della donna», racconta Francesco Bonini, responsabile America Latina dell’ong fiorentina.

 

Dalla città di Santo Domingo ci vogliono due ore circa per raggiungere la casa di doña Julia. Dopo l’autostrada E20, il tragitto diventa di terra e fango. Ai lati della carreggiata ci sono le case dei residenti, molte delle quali in vendita perché sono sempre meno quelli che riescono a sostentarsi con i frutti della terra. A comprarle sono famiglie benestanti che arrivano dalle città più grandi per trascorrere le vacanze nel verde. Oppure gli intermediari, sconosciuti che approfittano della disperazione per acquistare le proprietà a basso costo e venderle alle aziende desiderose di possedere terreni su cui, altrimenti, non avrebbero alcun diritto.

Tra queste c’è Energy & Palma, un’impresa del gruppo ecuadoriano La Fabril, che ha relazioni commerciali con Nestlé, Pepsi, Kellogg’s e General Mills. La società civile ecuadoriana e alcune organizzazioni per la tutela dell’ambiente hanno scritto a queste multinazionali una lettera aperta, chiedendo di sospendere gli acquisti da Energy & Palma, accusata di violare i diritti umani delle popolazioni locali, in particolare delle comunità afrodiscendenti, fondate nel XIX secolo da chi, in fuga dalla schiavitù, si è rifugiato nelle zone, allora remote, di Esmeraldas. Costituiscono il 43,9 per cento degli abitanti della provincia. Secondo uno studio condotto nel 2015 dallo IAEN, l’Istituto nazionale di studi superiori, gli afroecuadoriani hanno perso più di 30 mila ettari di terreni dagli anni Novanta, quando hanno ottenuto il diritto di proprietà sulle terre in cui vivevano, principalmente a causa delle azioni illegali dell’industria della palma da olio.

La pratica di acquisto di terreni tramite gli intermediari era molto comune soprattutto agli inizi degli anni duemila. Ha trasformato l’Ecuador nel secondo produttore di palma da olio dell’America Latina e il quinto nel mondo.

 

«Le aziende prima hanno acquistato i terreni e dato vita alle piantagioni, poi chiesto i permessi necessari al governo, che li ha accordati. Quello che è successo mostra perfettamente la doppia faccia dello stato ecuadoriano, che da un lato fa tutto il possibile per incrementare la produzione e le esportazioni di palma da olio, dall’altro dice di preoccuparsi della tutela dell’ambiente e della popolazione ma nella pratica non attua nulla per farlo», spiega Bonilla. Nel luglio 2020 è entrata in vigore una legge che dovrebbe regolamentare i processi di produzione, commercializzazione, estrazione, esportazione e industrializzazione della palma e che prevede sanzioni per chi non rispetta le norme, ma finora non c’è stato nessun cambiamento. L’olio di palma è un prodotto molto richiesto sul mercato mondiale, utilizzato per l’industria alimentare, quella dei cosmetici e anche come bio-combustibile. Si tira fuori sia dal frutto della pianta, sia dai suoi semi, e anche il processo di estrazione è nocivo perché rilascia sostanze tossiche nel terreno, ma genera per lo Stato grandi guadagni, in dollari, che fanno passare in secondo piano le condizioni delle popolazioni locali.

 

«Fino agli anni duemila la vita delle comunità nelle aree rurali era molto diversa. L’acqua dei fiumi era pulita, gli abitanti avevano accesso al bosco e vivevano dei suoi frutti. Con l’arrivo delle enormi piantagioni monocoltura hanno perso tutto. Anche la capacità di autogovernarsi. Perché la logica del profitto facile crea conflitti anche all’interno delle comunità. Non è un caso che le zone in cui si coltiva più palma siano anche quelle in cui sono più frequenti gli episodi di violenza», conclude Bonilla. I diritti della Pachamama, la Natura, sanciti dalla Costituzione ecuadoriana, una delle più avanzate in tema di tutela ambientale, entrata in vigore nel 2008, vengono ancora una volta messi da parte in nome del libero mercato. E la colpa è anche degli europei. L’Unione, seconda solo alla Cina, nel 2017, è stata responsabile del 16 per cento della deforestazione associata al commercio internazionale. Soia, olio di palma e carne bovina i prodotti più richiesti, che hanno avuto maggior peso nella distruzione delle foreste tropicali.