La fantasia. L’immaginazione. L’imprevedibilità. Il potere del mito. I fatti scientifici hanno bisogno anche di irrazionalità. Perché il sapere è sempre un corpo a corpo con l’ignoto. Colloquio con la storica della scienza messicana

Non c’è scienza senza fantasia, ossessioni e tutto quello che in genere viene liquidato come espressione di irrazionalità. E se vogliamo salvare la scienza dall’assalto dei no vax e negazionisti di ogni tipo dobbiamo riportare l’elemento dell’imprevedibilità e dell’incertezza nel racconto che facciamo dei fatti scientifici. Jimena Canales, nata a Città del Messico 48 anni fa, storica della scienza, studi e vita negli Stati Uniti, PhD ad Harvard, una serie di insegnamenti in atenei importanti, articoli su riviste come il “New Yorker” o “Wired”, collaborazioni con artisti come Ólafur Elíasson (celebre per la sua mostra “The Weather Project”, nel 2003 a Londra, un’installazione nella Turbine Hall, con un gigantesco sole), è l’autrice di “L’ombra del diavolo. Una storia dei demoni della scienza” (Bollati Boringhieri). A scanso di equivoci: i demoni sono una metafora, la voce interna, molto soggettiva, che porta gli scienziati a fare scoperte e invenzioni. Nel libro parte da Cartesio, per dire che neanche il padre del razionalismo era scevro di irrazionalità. E in questa conversazione, via Skype, prende lo spunto dalla critica radicale della filosofia analitica, in voga nel mondo anglosassone, per la quale, dice: «La scienza è verifica delle ipotesi. A me invece la scienza interessa come confronto con l’ignoto». Continua: «I demoni sono la chiave per raccontare la storia delle invenzioni e scoperte dalle conseguenze che sembrano magia pur se con la magia non hanno niente a che fare». E cita il caso dello smartphone. Sorride quando sente l’annotazione che in Israele, Paese all’avanguardia della scienza e anche delle tecnologie, all’inizio il telefono cellulare veniva chiamato “pelephone”, telefono magico. Riprende: «Ci sono due modi per parlare della scienze. L’uno, insistere nella convinzione che possiamo eliminare ciò che non è razionale. L’altro è vedere le scienze chiamate “esatte” legate a quelle umanistiche, all’arte, alla poesia e ripeto all’immaginazione».

 

Va bene l’immaginazione. Però il problema è che noi umani abbiamo il timore dell’imprevedibile e dell’ignoto. E siamo disposti a rinunciare a pezzi della nostra libertà e all’immaginazione che contesta lo stato di cose esistenti, per godere invece di una sensazione di sicurezza. In questi anni di pandemia, quante volte, abbiamo sentito chiedere agli scienziati: dateci certezze. Canales, sorride: «Ha presente Pierre-Simone Laplace?». Matematico, fisico, astronomo francese, a cavallo fra il Settecento e l’Ottocento, era convinto, estremizzando, che l’Universo fosse costruito come una macchina, dove tutto è calcolabile. «Ecco, Laplace», continua Canales, «è il santo patrono del determinismo, di quella prevedibilità del futuro che tutti noi cerchiamo. Del resto, è questo il motivo per cui ci serviamo di statistiche e strumenti simili. Non c’è nulla di strano in questo. Però, proviamo a parlare di tecnologia moderna. Torniamo all’esempio dello smartphone. Tutti diciamo che cambia il nostro mondo, così come lo cambiano i social media e qualche altra invenzione, per esempio il vaccino contro il Covid-19 con il corollario del passaporto vaccinale. Discutiamo accanitamente se il cambiamento porterà del bene o del male. Ma tralasciamo il lato sorprendente, imprevedibile della questione». Ride: «Fin dai tempi della Rivoluzione francese siamo a caccia dei demoni di Laplace». Spiega, citando Charles Babbage, l’inventore britannico ottocentesco della “macchina analitica”, progettata (non compiuta comunque) grazie alle intuizioni di Laplace appunto: «Quella macchina era il precursore del computer che a sua volta ci ha portati all’invenzione dell’intelligenza artificiale». Dal demone di uno scienziato convinto di poter determinare tutto per rendere gli umani razionali padroni dell’Universo è nato il postumano, che nessuno aveva previsto e che a sua volta aumenta la nostra sensazione di incertezza. Ora, visto che ha citato il vaccino e che è critica nei confronti del modo in cui oggi si pone al pubblico la scienza, la domanda è inevitabile: perché dobbiamo vaccinarci? La risposta è secca: «Perché il vaccino funziona». E allora i fatti esistono? «Certo, mi sarei vergognata a scrivere un libro postmoderno, dato che a questo alludeva la sua domanda», risponde: «Ma anche i fatti hanno la loro genesi». Ci torneremo.

 

Intanto entriamo nel cuore di quella che è la narrazione delle scienze: il rapporto fra l’uomo e la natura e il ruolo del mito nell’invenzione delle cose nuove ed esplorazione dell’ignoto. Prendiamo il caso dello scozzese James Clerk Maxwell. Nel pieno Ottocento fa un “esperimento mentale”: si immagina di poter modificare il secondo principio della termodinamica. La vicenda è citata nel libro e non la spiegheremo qui. L’importante è dire che lo scienziato aveva immaginato di modificare la natura, di fare cioè qualcosa di simile al gesto di Prometeo che ruba il fuoco, destinato agli dei, per donarlo con astuzia agli uomini, infrangendo così le leggi del Cosmo. Aggiungiamo una citazione di un bellissimo libro del fisico Guido Tonelli, “Genesi. Il grande racconto delle origini”, in cui spiega la struttura dell’Universo con l’ausilio della mitologia. E allora il mito funziona perché ci riporta all’arcaico, al primordiale, all’origine dell’immaginazione? Canales riflette, poi dice: «Non mi spingerei a dire che la scienza sia basata sui miti. Però, i miti sono utili dal punto di vista cognitivo per comprendere i sistemi razionali come è appunto la scienza, della percezione del mondo». Tace, e riprende: «La scienza si è creata come l’opposto del mito, ma ci sono aspetti mitologici nella scienza, nascosti, da portare invece in superficie. Faccio un esempio banale. Leggo saggi difficilissimi di matematici sulla velocità della luce, ma poi mi dico: parliamo della luce e non della velocità». E la parola luce, inutile ribadirlo, ha una sua valenza in mitologia, letteratura, arte, insomma in tutte quelle discipline che non prevedono il calcolo matematico come misura della veridicità.

E così siamo arrivati a un’altra questione, cruciale per la nostra percezione della realtà e dell’incertezza sul mondo (scienza compresa) in cui viviamo: il tempo. Esattamente cent’anni fa, nell’aprile del 1922, a Parigi ci fu una discussione celebre e paradigmatica fra Albert Einstein con la sua teoria della relatività e Henri Bergson, all’epoca considerato il massimo filosofo vivente. Su questa discussione che segna in qualche modo la scissione fra scienze esatte e filosofia, Canales ha scritto un libro: “The Physicist and the Philosopher: Einstein, Bergson, and the Debate That Changed Our Understanding of Time” (Il fisico e il filosofo. Einstein, Bergson e il dibattito che ha cambiato la nostra comprensione del tempo). Canales dice: «Einstein credeva che il tempo dovesse essere definito dagli orologi, cioè da come è stato misurato. Bergson invece, era convinto che la misurazione del tempo fosse solo una componente di un concetto più ampio e che occorresse sapere prima di tutto chi ha fatto l’orologio». In altre parole: per Bergson il tempo non era solo misurazione, ma prima di tutto comprendeva il vissuto della persone. E del resto, il concetto del tempo di Bergson è alla base del capolavoro di Thomas Mann, “La Montagna magica”. Il tempo percepito dai protagonisti del romanzo, nel sanatorio, non è quello del mondo fuori, misurato dagli orologi appunto. Canales interrompe: «È dai tempi di Agostino che ne parliamo e ne discutiamo. Per me la questione dirimente è: chi ha il potere di stabilire cosa è il tempo e chi ha creato le strutture sociali che hanno portato a un certo tipo di orologi». Infatti, i comunardi di Parigi, nel 1871, senza avere un’educazione filosofica, intuivano che il tempo fosse legato al potere: sparavano sugli orologi. Però, siamo a oggi, all’epoca di telescopi giganteschi grazie ai quali possiamo vedere le origini dell’Universo. Significa che tutto è contemporaneo, che vediamo il passato remotissimo come se fosse il presente. Ma se tutto è presente, non c’è più futuro e tutto è reversibile. La domanda è: come possiamo vivere con questa idea e contemporaneamente accettare l’esistenza di fatti incontrovertibili? Canales interrompe: «Nella sua domanda è insita la risposta. La contraddizione fra il tempo percepito e quello misurato, così come fra le scoperte della scienza e il vissuto è tragica. Lo stesso Einstein ne è esempio. Era ossessionato dal passare del tempo, dal non poterlo controllare».

 

Dire contraddizione tragica però non basta. Come raccontarlo? Risposta: «Facciamo un altro esempio. Se volessimo girare un film sulla sua vita, abbiamo due possibilità. La prima: ne riprendiamo ogni attimo, senza alcuna spiegazione. La seconda invece: costruiamo una trama, con momenti salienti». Certo, la seconda è più interessante. Ma come far accettare alla gente che c’è più verità in quello che sembra un racconto inventato, che non nella mera registrazione dell’accaduto? Canales risponde allargando il discorso: «Continuare a prendere partito per Einstein o Bergson», ossia per oggettività o soggettività, «è anacronistico, e significa solo fare eco alle divisioni sociali, politiche e di genere. Io invece penso che l’uscita da questa situazione sarebbe trovare una terza via. Il pensiero postmoderno non lo ha fatto perché ci ha portato lontano dai fatti. Ma è possibile rendere la scissione di cui parliamo meno divisiva e meno violenta». Si ferma, riflette di nuovo: «Anziché prendersela con la scienza perché non ci dà le risposte certe, dobbiamo indagare la storia del divorzio fra umanesimo e scienza». E così ci si avvia verso la conclusione: «Sono a favore della scienza e dei fatti», dice Canales. «Ma i fatti sono quello che gli strumenti dicono. Per esempio, lo strumento termometro è utile per indicare la temperatura. Spesso però dimentichiamo che la creazione dei nuovi strumenti crea nuovi fatti». E allora dobbiamo impedire la costruzione dei nuovi strumenti? «Certo che no. Mica dobbiamo essere reazionari. Dobbiamo allargare il sapere sul sapere: per proteggere il sapere». E riuscire, senza né soggezione né falsa presunzione a raccontare la scienza in un modo convincente. Scriveva Freud, parafrasando un poeta medioevale di Bassora: «Ciò che non si può raggiungere a volo, occorre raggiungere zoppicando… La Scrittura dice che zoppicare non è un colpa». Ma prima di zoppicare si sogna e immagina il volo. Forse è questa la terza via.