Quindici anni fa l’uccisione dell’ispettore allo stadio di Catania. Antonino Speziale, che allora aveva 17 anni, ha scontato la pena, rivendicando la sua innocenza: «Cerco di rifarmi una vita e dimenticare». Tornerà alla sbarra per il risarcimento del danno

Quel venerdì, il 2 febbraio di 15 anni fa, a Catania le luminarie erano già accese in via Etnea. E i tifosi speravano in un aiuto di Sant’Agata per vincere quel derby d’alta classifica che coronava la bella stagione di Palermo e Catania. Era un anticipo insolito quello della serie A, ma quel derby doveva giocarsi di venerdì perché gli altri giorni le strade della cittadina sotto l’Etna doveva riempirsi di cera al grido di “Semu tutti devoti tutti” per la santa della città. Prima della preghiera cattolica c’era quindi la preghiera laica e anche Antonino, all’epoca 17 anni, non voleva mancare quella sera. Tra Palermo e Catania non corre buon sangue e quel venerdì la sicurezza doveva essere massima, per questo motivo per tutta la giornata volavano elicotteri sopra lo stadio “Massimino” strapieno per la partita. È il giorno che ha segnato la vita di Antonino Speziale, ma lui di quella sera così buia per la Sicilia e per il calcio italiano non vuole più parlare. Condannato a otto anni per aver ucciso l’ispettore di polizia Filippo Raciti, ha scontato la sua pena, nonostante si sia proclamato sempre innocente e lo scorso anno è tornato libero. L’età in cui tutti i suoi amici hanno trovato lavoro e si sono sposati lui li ha passati in carcere. Sono state lacrime il giorno di dicembre, quando lui è tornato nella sua Catania, in pieno centro storico, riabbracciando la madre e il padre.

 

 

Dalla città del “Liotru” però, dove è stato accolto con gli applausi del suo quartiere ha voluto andare via presto: «Ho deciso di andare via e girare il mondo per riprendere in mano la mia vita – dice dall’estero al telefono tra una pausa e l’altra dal suo lavoro – Uscito dal carcere non è facile trovare lavoro quindi ho deciso di recuperare, vedere il mondo e riprendermi il tempo perduto». Volato via da qualche mese, cerca di darsi da fare in qualunque modo, facendo consegne a domicilio e facendo dei lavoretti, ma il suo obiettivo è quello di farsi una nuova vita: «Lavoricchio e intanto mi impegno per aumentare il mio bagaglio di esperienze, conoscere le lingue e fare pratica nei lavori che ho avuto modo di studiare in carcere solo nella loro parte teorica».

 

Ormai superati i trent’anni Antonio vuole darsi una nuova opportunità e teme anche che qualunque parola possa essere travisata e farlo ripiombare di nuovo nell’incubo. «Non voglio parlare di quei giorni, non è questo il momento», dice Antonino che non vuole offendere nessuno e teme qualunque parola possa ritorcersi contro. I suoi anni in carcere però non li dimentica: «Non è facile dover vivere all’interno delle carceri già in un momento normale, figuriamoci in un momento di pandemia, non c’è nessun interesse e nessuno ti aiuta. Ci si è dimenticati che le persone in carcere sono comunque persone e negli ultimi due anni le conseguenze delle carenze delle carceri sono triplicate con la pandemia. La situazione è disastrosa, se c’è una cosa di cui voglio parlare è questa: chi è in carcere deve essere aiutato. Chi sta vivendo la pandemia dentro un circuito chiuso sta soffrendo di più».

 

Uscito dal carcere, 14 anni dopo quel tragico due febbraio 2007, non è più riuscito a dimenticare quei giorni: «Ho studiato in cella, facendo solo teoria, ho incontrato però professori che mi hanno aiutato». Uscito però, tenta di rifarsi una vita in Italia ma poi decide di andare via. «Per me è stata durissima lasciare di nuovo i miei affetti ma voglio riprendermi i miei spazi, rimettermi in gioco». Così la decisione qualche mese fa di volare via, con l’intento di allontanarsi da un mondo che non sembra avere un futuro per lui: «Per chi esce dal carcere non è facile trovare lavoro, per questo ho deciso di andare via – dice ancora -. Soprattutto dopo la pandemia è diventato ancora più difficile. Io ho saltato un decennio della mia vita e devo recuperare».

 

 

Antonio, proclamatosi sempre innocente, nonostante non voglia toccare più l’argomento, in Italia, probabilmente, verrà per andare di nuovo nelle aule giudiziarie, per il ricorso presentato dal suo avvocato, Giuseppe Lipera, contro la condanna al risarcimento di 15 milioni di euro alla presidenza del Consiglio dei ministri e al ministero dell’Interno. L’udienza è fissata per il giugno 2020 e anche in quel caso l’avvocato Lipera si batterà per ribadire l’innocenza del suo assistito, facendo leva sugli elementi controversi del processo, come l’ora del decesso, le immagini di sorveglianza e le cause della morte, avvenute, secondo il giudizio finale del giudice, dall’impatto del sotto-lavandino portato in braccio da Speziale che, nonostante abbia ammesso di aver partecipato ai disordini, continua a ribadire che con la morte dell’ispettore Raciti non c’entra nulla. Quel tragico giorno però non lo dimentica, quel giorno in cui alla parte della città illuminate a festa per Sant’Agata, si alternava il buio del piazzale dello stadio Massimino e il buio di un evento tragico che ha segnato la vita della famiglia Raciti e la vita di un ragazzo ancora minorenne, che ha pagato il suo conto con la giustizia ma vuole tornare a vivere.