Alina non ha più nessuno. Vive nel palazzo dove abitava con la famiglia. E di lei si occupano i vicini. Come lei tanti piccoli ucraini patiscono fame e blackout. Mentre i genitori sono al fronte, nelle milizie di difesa o in cerca di fortuna in Europa

«Come a Napoli dopo la liberazione, oggi in piazza della Libertà a Kherson comandano i bambini. Sono una banda di età variabile tra i 6 anni e i 12, i più alti danno gli ordini e gli altri corrono di conseguenza. Ti circondano e iniziano a toccare tutto, «cos’è questa? A cosa serve questo? Mi regali questo? E questo e questo…». Sono attratti soprattutto dagli accessori militari e dagli strap. Non li rubano, ma li staccano e te li chiedono insistentemente e se dici no passano direttamente all’oggetto accanto. Ridono forte con il tono acuto tipico della loro età e fanno a gara per dimostrarsi più strafottenti. Uno di loro finge di scappare con un moschettone che aveva staccato dal retro del giubbotto antiproiettile e poi torna indietro e chiede un riscatto.

Da quel momento iniziano tutti a chiedere «dollars, yevra, grivna», soldi insomma. E non è più divertente perché si trasformano in bisognosi. Come dice Ivan al fratello Alioscia nei Fratelli Karamazov «con i bambini è tutto più evidente», del resto «se è vero che essi devono condividere la responsabilità di tutti i misfatti compiuti dai loro padri, allora io dico che una tale verità non è di questo mondo e non la capisco». Perché la punizione non dovrebbe essere uguale per tutti e comunque nelle nostre società i bambini non sono puniti mai allo stesso modo e quando ciò accade ci scandalizziamo e si indica come «mostro» chi contravviene. Invece in guerra la sofferenza livella all’estremo ogni distinzione, il mostro è dovunque, nelle cose animate e inanimate. In chi decide di bombardare e nel missile stesso.

 

Quei bimbi non escono da una scena di un film neorealista italiano, non sono i ragazzi di un romanzo ottocentesco, sono orfani di padri uccisi in guerra o in prigionia, sono figli di deportati oltre il fiume Dnipro, di genitori sparsi per l’Europa e nonni stremati, di collaborazionisti costretti a seguire la ritirata russa per evitare il tribunale marziale di Kiev, a volte sono anche figli di nessuno. Come la piccola Alina che a Kramatorsk, in Donbass, ogni giorno scendeva con noi quando partivamo e ci veniva incontro nel cortile del palazzo al ritorno. Con i colleghi pensavamo lo facesse solo per curiosità e un pomeriggio siamo tornati con una busta piena di dolci. Alina era scappata nel buio delle scale ma dopo poco era venuta a bussarci una vicina che ci aveva spiegato che entrambi i genitori di Alina erano morti durante un bombardamento. «E chi si occupa di lei?». Chi può, aveva risposto la donna.

La bimba si spostava di casa in casa ma rimaneva sempre nel suo palazzo, nascondendosi dietro la pesante porta di ferro quando arrivavano degli sconosciuti. Ora che a Kramatorsk si inizia a gelare e la corrente elettrica manca spesso, dove si rifugia Alina non lo sappiamo. I blackout reiterati rendono molto difficili le comunicazioni e intere aree della città sono isolate. Probabilmente molti bambini ucraini hanno superato la paura del buio in quanto si sono resi conto che ci sono cose reali ben più terribili. Chi invece ce l’ha ancora deve essere atterrito ora che quasi due case su tre scontano interruzioni di corrente continua.

Yuri nel suo garage adibito a rifugio nella zona portuale di Mykolayiv dice che «le bambine (le due figlie di 12 e 13 anni) non chiedono mai, credo che abbiano capito tutto da sole». Ma Yuri in realtà non ne sa molto di cosa chiedono le figlie poiché lui è fuori tutto il giorno con i battaglioni di difesa territoriale. È sua moglie Svetlana che passa la maggior parte del tempo con loro. «Parlano con gli amichetti su Internet, i professori ogni tanto gli accennano qualcosa durante le lezioni a distanza e poi le sento che confabulano tra di loro, il fatto che il padre sia militare le preoccupa molto». Svetlana è commovente con le figlie, alle attenzioni normali di una madre aggiunge una forza d’animo titanica. Purtroppo non è per tutti così.

Alcuni dei padri di Kherson avevano ricevuto l’ordine di ritirata il 26 febbraio e non sono potuti rientrare in città fino a un mese fa. Ora si occupano di «bonificare» i villaggi di campagna intorno al capoluogo. Cercano collaborazionisti, raccolgono testimonianze per i tribunali speciali sui crimini di guerra, presidiano le aree minate o sono in turno alle postazioni di artiglieria lungo la riva occidentale del Dnipro. Queste ultime sono le zone più pericolose al momento assieme alle infrastrutture energetiche e portuali. I russi le bersagliano quotidianamente per impedire la riorganizzazione delle difese e per tenere impegnate la controparte. Infatti, più militari ucraini devono restare a difesa del fronte sud e meno se ne possono dislocare nell’est.

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Anche se lo Stato maggiore di Kiev è molto riservato sulla sua strategia nel Lugansk è plausibile credere che Kreminna e Svatove siano i suoi obiettivi principali. Il primo per entrare a Lysychansk (o per iniziare ad accerchiarla) il secondo per interrompere le linee di approvvigionamento delle truppe russe che passano dall’importante snodo ferroviario cittadino. Così come fecero a Kupiansk per isolare Izyum e costringere i russi alla ritirata per insufficienza di munizioni, carburante e rinforzi. Ma stavolta Surovikin, il comandante in capo delle forze russe in Ucraina, ha dato l’ordine di fortificare con chilometri di linee di trincee e denti di drago (i blocchi di cemento a forma di prisma che servono per bloccare i mezzi pesanti) le pianure a est del fronte. Inoltre ci sono i nuovi coscritti, quelli arrivati con la «mobilitazione parziale» di inizio autunno.

Saranno anche male addestrati e male armati, ma sono diverse decine di migliaia e gli sono stati assegnati compiti prettamente difensivi; possono anche morire a centinaia basta che tengano la posizione. Sempre in Donbass, tuttavia, c’è un secondo fronte, molto più sanguinoso. Si tratta di Bakhmut, data per spacciata a giugno e ancora in mano ucraina. La cittadina deve la sua importanza alla posizione strategica che occupa, a poca distanza dal Donetsk separatista e al crocevia di due autostrade che portano a Kramatorsk, Slovjansk e nel cuore del comando ucraino orientale. Dopo la caduta di Severodonetsk e Lysychansk sembrava che per Bakhmut fosse solo questione di tempo. E lo stesso si credeva per il villaggio di Soledar, nella stessa zona e ancora più esposto all’avanzata di Mosca da est.

E invece sia Soledar sia Bakhmut si sono trasformate in un cimitero a cielo aperto. Le immagini satellitari mostrano una terra devastata. Ma dal vivo è molto peggio, ogni giorno nuove macerie, nuovi morti, meno quartieri accessibili e le evacuazioni si fanno sempre più rischiose. I civili rimasti sembrano zombie, si aggirano con buste di plastica piene di tutto ciò che riescono a trovare tra le macerie o dai pochi che ancora vendono qualcosa, e non battono ciglio neanche quando un colpo di mortaio esplode a poche decine di metri. Eppure non se ne vanno, così come non se ne vanno i militari ucraini che hanno attirato i russi nell’ennesima trappola dall’inizio dell’invasione.

Come Mariupol ha permesso all’esercito di Kiev di riorganizzarsi e di resistere altrove mentre i russi cercavano di radere al suolo ogni centimetro dell’Azovstal, Bakhmut ha permesso ai rinforzi di arrivare a Kramatorsk, al genio militare di spostare gli Himars americani nell’est, alle ferrovie di portare nuovi obici e semoventi. E alla fine, come ha dichiarato il generale Zaluznyj, il comandante in capo delle forze armate ucraine, Bakhmut sarà comunque una vittoria. Se i russi dovessero rinunciare o venire respinti (il che al momento è altamente improbabile) si tratterebbe di un capolavoro di resistenza, ma «anche se dovessimo ritirarci avremmo vinto» considerando i nemici caduti e il tempo impiegato per la conquista. In tal caso, si noti bene, non si tratta di propaganda bellica, Zaluznyj ha ragione a gioire per il nemico impantanato. Chi non ne gioisce di sicuro sono i civili dell’area, ma i generali guardano al quadro più ampio, i dettagli sono distrazioni. Non che gli ucraini non stiano pagando cara la difesa di quel fazzoletto di terra, tuttavia perdere Bakhmut ora avrebbe un impatto infinitamente minore rispetto a quattro mesi fa.

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E poi c’è Zaporizhzhia, la costante paura. Tra accuse reciproche e dichiarazioni roboanti i due Stati non intendono abbandonare le mire sull’area della centrale nucleare più grande d’Europa. Il Cremlino la occupa fisicamente e la risposta alle richieste dell’Aiea e alla comunità internazionale per ora è solo un grande «niet». Gli ucraini vogliono riprenderla ad ogni costo perché così potrebbero spezzare in due i territori occupati lungo la costa orientale del Mar Nero. Un tentativo di sfondamento nell’area occupata di Melitopol non è da escludere e anche per questo Surovikin ha fatto scavare nuove trincee e postazioni difensive.

Si parla spesso di “generale inverno” e di come i russi vogliano sfruttare il gelo incipiente a proprio vantaggio. Ma gli ucraini conoscono il freddo come i loro vicini, in passato hanno combattuto insieme a entrambi. Per questo tenteranno di non lasciare ai nemici il tempo di riorganizzarsi per un’eventuale nuova offensiva primaverile ma terranno impegnate le truppe di Mosca su ogni fronte possibile. Per lo stesso motivo i russi bombarderanno ancora.

E intanto i bambini di Kherson continueranno a reclamare quella libertà che gli è stata negata per mesi, finché non dovranno correre a nascondersi di nuovo.