«Al regime di Teheran fa paura la bellezza, pretende di nasconderla. Si accanisce nella sottomissione delle donne». Colloquio con il celebre pianista, costretto a fuggire con la famiglia dal suo Paese con l’arrivo del regime di Khomeyni

«È in corso una rivoluzione, ne ha tutti i caratteri. E ha il sapore della libertà. Non va letta come una sommossa, non lo è più. Totalmente diverso da alcune proteste del passato. Stavolta possono farcela, perché il regime perde consenso. Le ragazze, le donne stanno mostrando un coraggio incredibile, da far vergognare i maschi».

 

Luccicano gli occhi a Ramin Bahrami mentre parla del suo Iran, la Persia millenaria delle radici, quasi più di quando suona al pianoforte l’amato Bach. Invoca il sostegno dell’opinione pubblica europea, biasima l’ambiguità dei governi occidentali, si addolora per il silenzio di Papa Francesco. «Il sangue degli esseri umani è rosso allo stesso modo in tutti i luoghi del mondo, sia che scorra in Ucraina che in Siria e in Congo. Perché in Iran no, forse è diverso?», è il suo amaro interrogativo. Parla con dolore e rabbia di quel che accade nel paese che gli ha dato i natali 46 anni fa, sotto il regno dello scià Reza Pahlevi; dall’Iran fu costretto a scappare ancora bambino insieme alla madre dopo l’arresto e l’omicidio del padre da parte del regime teocratico imposto dall’ayatollah Khomeyni.

 

L’Espresso ha incontrato Ramin Bahrami a Ercolano, la città alle falde del Vesuvio, dopo un intenso concerto nell’auditorium del Museo Archeologico Virtuale (Mav). Un concerto politico, definito così dagli organizzatori, «per la libertà delle donne iraniane». Nelle stesse ore in cui la dittatura di Teheran ha sfidato il mondo con le impiccagioni di giovani contestatori. Al pianoforte Bahrami ha suonato Bach, Mozart, Bela Bartòk, Chopin. «La musica classica non è più vietata nel mio Paese. Solo menti perverse potevano pensare che fosse una musica di perdizione. Resta proibita quella contemporanea: Michael Jackson, i Bon Jovi, i Måneskin sono considerati diabolici. Si finisce in carcere, si rischia la vita nell’ascoltarli. È contro questo clima soffocante che i giovani si stanno ribellando».

 

La musica per Bahrami è la vita. Ancora oggi, all’apice del successo, ammette di esercitarsi al piano per sei-sette ore al giorno. Pendolare tra l’Italia e la Germania, dove ha scelto di risiedere.

 

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Dunque, solo per ascoltare un po’ di musica occidentale l’Iran è in fiamme?
«No, certo che no. Molti avranno sorriso vedendo quei video in cui i ragazzi, quando passa per strada uno di quei cupi personaggi tutti intabarrati, con un buffetto fanno cadere il loro turbante. Invece è un gesto enorme. Potente. È il segno del rifiuto di un modo di vivere imposto con la violenza, con il terrore. La Persia ha una cultura millenaria, almeno 8mila anni di storia; l’Islam è stato imposto solo 1400 anni fa. Sì, ripeto: solo 1400 anni. I persiani non sono arabi, non sono musulmani, è altra la nostra cultura».

 

Lei sta dicendo che è in atto anche una rivolta antireligiosa?
«Voglio dire - perché purtroppo in Europa se ne sa poco - che proprio nell’antica Persia sono state poste le basi del pensiero moderno, della civiltà indoeuropea. I persiani non hanno mai adorato inesistenti dei, come pure accadeva in Grecia. Con Zaratustra nasce il culto monoteista, l’idea di un unico dio. Si afferma il dualismo bene/male trasferito poi in musica nelle tonalità che noi oggi conosciamo come maggiore e minore. Esisteva già nello zoroastrismo una musica sacra; scritta, non orale. Con caratteri cuneiformi, come l’alfabeto originario. Cancellato con l’avvento del potere musulmano. L’idea del sacro non era affatto pedante o noiosa. Friedrich Nietzsche ha capito perfettamente questa cultura. Ispirato dal filosofo tedesco ho scritto “Mille e una musica”, primo libro in lingua italiana dedicato alla storia della musica persiana».

 

Lei sostiene insomma che la religione musulmana ha deviato l’evoluzione della civiltà persiana?
«Sì, perché l’Iran ha ancor oggi un’identità culturale ben definita. Quella religione fu accettata per sopravvivere. E poi, mi faccia dire: le moschee più belle del mondo sono state costruite in Iran. Perché lì è radicata la perfezione del bello. Sa una cosa? Mia nonna paterna era tedesca, ma non faticò a imparare il persiano. Perché in quell’antica lingua ci sono le radici comuni delle parlate indoeuropee. Tutte derivate dal sanscrito. Mio nonno, Mehdi Bahrami era un archeologo, lavorava al Louvre dove conobbe la futura moglie. Mia madre invece ha sangue russo».

 

Oggi però il regime si accanisce contro il corpo delle donne. Mahsa Amini, appena 22 anni, è stata assassinata per il solo motivo di non aver nascosto sotto il velo una ciocca di capelli. E Mohsen Shekari è stato il primo condannato all’impiccagione a soli 23 anni. Perché?
«Al regime di Teheran fa paura la bellezza, pretende di nasconderla. Si accanisce nella sottomissione delle donne. Ma la civiltà persiana ha un’impronta matriarcale, si vede in questi giorni dolorosi. Le donne iraniane stanno dimostrando di essere più coraggiose degli uomini. Manifestano una forza incredibile. E i maschi stanno imparando dalle ragazze, aderiscono alla rivoluzione per dimostrare di non essere dei vigliacchi».

 

Durerà? Il regime resisterà o può collassare?
«Mi arrivano notizie di agenti della polizia morale e di membri dell’esercito disposti a mettersi dalla parte del popolo. Nonostante l’atroce repressione. Come dalla parte del popolo si sono schierati in Qatar i calciatori della nazionale quando si sono rifiutati di cantare l’inno. Rischiano molto per il loro coraggio».

 

Che cosa può fare il mondo occidentale per aiutare le ragazze e i ragazzi iraniani?
«I governi dell’Occidente hanno grosse colpe. Nonostante le apparenze, coltivano imponenti interessi economici in quanto l’Iran è ricco di petrolio e uranio. Dai governi mi aspetto poco. Ma dalle opinioni pubbliche molto. Anche un concerto serve per rompere il muro del silenzio. Come le manifestazioni che si stanno svolgendo in Italia. O la campagna di informazione promossa da Radio Radicale».

 

Che cosa insegnano invece a noi occidentali, alle nostre sfibrate istituzioni democratiche, gli eventi in corso in Iran? Che le democrazie non si esportano? Ma che si conquistano e si costruiscono nel proprio Paese con il sacrificio e la lotta?
«Sì, la rivoluzione è nata spontaneamente. Ha radici profonde. Come la cultura che non conosce confini. Così la musica, linguaggio universale. Alla fine la bellezza vincerà anche in Iran. Mi piacerebbe che in tanti potessimo ritornare presto a Persepoli, lì dove Arthur Rubinstein amava suonare tra lo splendore di quelle rovine».

 

Lei non è di religione islamica. Ma ha una sua fede? Se sì, qual è?
«Come Johann Sebastian Bach sono cristiano, di rito cattolico romano. Se la religione cristiana ha avuto il suo più grande musicista in Bach, non posso che esserlo anche io. In quella musica io scorgo la perfezione. Un miracolo della nostra società».