Per una cattedra accettavano di spostarsi. Ma negli anni ’70 erano viaggi alla scoperta di luoghi allora remoti. Come l’Ogliastra. In un libro, la storia del docente siciliano Giancarlo Mirone che sperimentò sul campo alcuni espedienti per abbattere disuguaglianze e reiciproche diffidenze

Tore e Battista entrano nel sacco di iuta. Si muovono nell’aula mentre compiono gesti ripetitivi come lavarsi i denti, pregare, guardare l’orologio, prendere le medicine. Intanto Mariolino li pungola con un ramo di ulivo. La classe scoppia in una fragorosa risata mentre il professore si chiede che cosa ne penserebbe il premio Nobel Samuel Beckett della bizzarra interpretazione della sua opera “Atto senza parole II” che ha preso forma nella prima media, sezione D, di Baunei. Un piccolo comune di mezza collina nel centro dell’Ogliastra, in Sardegna.

 

Era il 1973. Baunei non era ancora conosciuto come uno dei borghi più belli d’Italia. Ma era un segno poco noto, come tanti altri, sulla cartina geografica. La Sardegna era considerata l’ultima spiaggia per chi, come Giancarlo Mirone, desiderava insegnare. Da terra dimenticata almeno fino a un paio di anni prima, fino a quando la vittoria del Campionato del Cagliari capitanato da Gigi Riva nel 1970 non ha assottigliato il limbo che la separava dal resto del Paese, si è trasformata in luogo di incontro, di formazione e crescita.

 

In una casa per gli aspiranti insegnanti che per ottenere una cattedra lasciavano famiglia e amici, per trasferirsi in territori fino a quel momento sconosciuti. Come oggi. Ma le fila del precariato erano meno ricche, le graduatorie per l’insegnamento più scorrevoli, tante aree d’Italia ancora remote.

Con la liberalizzazione delle università che ha seguito il Sessantotto, soprattutto al Sud, è aumentato il numero dei laureati. Per questo l’offerta di cattedre in molte regioni era diventata inferiore alla domanda. Così, soprattutto campani e siciliani, iniziavano a trasferirsi in zone meno frequentate del Paese, come la Sardegna. Di fatto rendendo più complicato per i locali l’accesso al mondo del lavoro.

 

«L’anno precedente al mio arrivo nei vari provveditorati dell’isola durante le convocazioni per l’assegnazione delle cattedre c’erano stati veri e propri scontri fisici tra gli universitari sardi e gli immigrati titolati», scrive Mirone nel suo libro L’Amore Sgrammaticato, edito dalla società Cooperativa Pietro Vittorietti. Per sottolineare il disappunto in cui si era imbattuto appena il suo traghetto da Napoli aveva attraccato al porto di Cagliari.

«Ma con il tempo sarei riuscito a convincere tanti dei miei interlocutori, non tutti, che ero consapevole del loro disagio, invitandoli a riflettere sul fatto che pure io ero nella stessa barca e che, se solo fosse stato possibile, non avrei certo lasciato la mia tribù per sfangarla in suolo altrui», racconta. La nostalgia della Sicilia, terra di nascita, di una Palermo pop e sessantottina, convive con la voglia di scoprire un posto nuovo nel percorso di crescita di Mirone. Un giovane insegnante, 24 anni, alla prima esperienza fuori casa. La sua formazione personale è contemporanea a quella dei 23 alunni della prima D di Baunei. La peggiore classe della scuola che, per mancanza di aule, era stata sistemata all’interno del municipio, al centro del piccolo paese. Dieci femmine e tredici maschi, in parte ripetenti, che assaltano l’insegnante, non appena entra in classe, in una lingua incomprensibile, il dialetto locale.

 

«L’impatto è stato sismico quanto mortificante». Così Mirone descrive il suo primo giorno. Ma scatta immediatamente la voglia di rompere il muro di incomunicabilità. Il desiderio di comprendere gli alunni con cui avrebbe avuto a che fare per molte ore settimanali, diciotto: dieci al mattino e otto nel pomeriggio per il doposcuola. La questione pedagogica diventa centrale nei pensieri di Mirone e nei dibattiti che porta avanti con gli altri docenti al bar, a tavola o durante le serate organizzate a casa, davanti a una bottiglia di vino o a un bicchierino di “fileferru”, un’acquavite frutto della tradizione locale. Proprio come in un circolo culturale in cui il desiderio di confronto porta le conversazioni tra gli interlocutori, fino a poco prima sconosciuti ma che si arricchiscono e divengono amici nel dibattito, a spaziare tra gli argomenti più variegati: dall’impegno politico ai fatti di cronaca. Fino alla funzione sociale della scuola.

 

Perché non può esistere democrazia senza una scuola che consenta a tutti di comprendere la realtà, di esprimere la propria opinione, di capire quella degli altri. Tutti, a prescindere dalle opportunità. Tutti devono avere la possibilità di migliorare la loro condizione di partenza. A questo serve la formazione: a garantire a ciascuno il sapere di cui ha bisogno per essere un cittadino consapevole. Come Don Milani in Lettera a una professoressa immagina una scuola che non respinga gli ultimi, Mirone cerca di costruire in classe tentativi di inclusione sociale per trasformare la prima D in un gruppo coeso. Dalle sperimentazioni più vicine al gioco, che traggono ispirazione dal pensiero di Gianni Rodari, alla scuola del fare. Al doposcuola nei campi, all’epistolario.

 

Una fitta corrispondenza tra studenti e insegnante in cui gli allievi hanno la possibilità di esprimersi liberamente. Che funziona. Tra le lettere, quella di Anna che scrive: «Il programma che noi svolgiamo a scuola, secondo me, non è sufficiente per prepararci ad una futura vita come dicono alcuni professori. Ci fanno studiare date e personaggi storici, che forse sono importanti, ma non ci fanno capire i veri problemi della società sbagliata in cui viviamo. Non so se mi spiego. Mentre noi ce ne stiamo a scuola a studiare delle regole che dopo un po’ di tempo, forse, scordiamo tanti popoli lottano per avere la propria libertà». O quella di Tore, il più irrequieto della classe: «Lei come proffessore spiega molto bene, io qualche volta lo seguo nella lezzione ma quando non lo seguo è colpa dei miei compagni perché mi chiamano, e molte volte anche perché sono annoiato».

 

La creazione di consapevolezza degli alunni procede parallelamente a quella di Mirone che definisce la sua identità lontano da casa. Si forma grazie alla conoscenza di nuovi amici, posti ed esperienze. Diventa giornalista per il quotidiano “La Nuova Sardegna” e mescolando le sue due passioni, per l’insegnamento e per l’informazione, porta in classe la realtà del mondo fuori, dagli accadimenti che caratterizzano i paesini dell’Ogliastra, come il rapimento di Olindo, uno dei più facoltosi commercianti di carni della zona, ai fatti che segnano la storia dei primi anni Settanta. Ma vale anche il contrario. Mirone porta la scuola sul giornale: cinque colonne, titolone e la fotografia panoramica di Baunei adagiato sul costone. E, nella parte centrale del servizio le lettere più significative tra quelle inviate dagli studenti al professore. «Un’alternativa diversa in un paesino di montagna. Che dire, oggi credo di potere ragionevolmente sostenere che ce l’abbiamo fatta. Ragazzi, finora siamo stati io e voi, da questo momento siamo noi».

 

L’epistolario ha rotto il muro di diffidenza e di iniziale incomunicabilità. Ha avvicinato il docente agli alunni e dato vita al “noi”. Però ha anche reso difficile il distacco. Che fisicamente è avvenuto il 5 novembre del 1973, l’ultimo giorno di Mirone nella scuola Baunei prima del trasferimento nel liceo di Jerzu, in provincia di Nuoro. Un’opportunità di carriera a cui il docente precario non ha potuto rinunciare. Ma un distacco che nella memoria non è mai avvenuto tanto che quasi cinquant’anni dopo l’insegnante e giornalista siciliano, tornato a Palermo, ha deciso di scrivere un libro sulla sua prima esperienza a scuola, ricordandone e ripercorrendo ogni aspetto. Dedicato agli alunni della prima media, sezione D, con cui ha saputo costruire un’intesa che ha reso il processo di insegnamento formativo per entrambi. Il resoconto di un amore sgrammaticato e genuino che ha anche il merito di ricordare come alcuni bisogni, l’accesso al sapere ad esempio, non debbano essere soddisfatti per merito ma per diritto, quando si vive all’interno di una comunità.